Parte seconda:la partigiana MIRKA

... dal racconto di Elsa Albrile, ottantanovenne, appare una figura semplice e solida nello stesso tempo, una ragazza del popolo, forse ancora inconsapevole di avere diritti come persona, ma cosciente che qualcosa era necessario fare per uscire da quel cerchio mostruoso dell'occupazione nazista e dittatura fascista ...Abbiamo ringraziato Elsa all'assemblea dell'ANPI, ma non basta mai...

Grazie, MIRKA, da noi tutte venute dopo...

La partigiana Mirka

... Attraverso i compagni di sindacato, mio marito sapeva dei partigiani. I fascisti sapevano già cosa pensava lui... Mio marito era sempre stato contro il fascismo. Sua sorella invece, faceva la segretaria del capo del fascio. Il vice direttore della fabbrica era fascista, il Direttore, invece, ricordo che non era di religione cattolica…Tutte le domeniche il vice direttore, e la moglie, radunavano le ragazze, le mogli, e facevano le "gite" fasciste, come qui ad Alpignano…Mio marito la tessera del fascio non l’ha mai voluta prendere e non mi ha mai parlato della sorella, di politica, ed anche quando sono andata a conoscere i suoi, lui non voleva aprire questo discorso.

Quando mi sono sposata, mio fratello aveva circa un mese, io sono andata su da lei (cognata), e lei mi ha dato un corredino in regalo. La moglie del vice direttore teneva le ragazze in pugno: lei sapeva ricamare, e tutte le ragazze che volevano imparare andavano da lei. Ma lei (cognata) non mi aveva detto che il corredino era opera sua... Poi mio marito mi disse che sua sorella sembrava così, che era una facciata, perchè per lei era come un ricatto, perché era impiegata e il suo capo era quello che organizzava tutto il fascio.

Qui, ad Alpignano, c’erano anche quelli (fascisti) di Ferriera quando avevano distrutto la Cooperativa e la Casa del Popolo, e prelevato le persone dalle case. Ho il ricordo della mamma che, quel giorno, aveva nascosto mio padre. Nel retro della casa avevamo una armadio dove mettevamo la legna: mia madre l’ha messo nell’armadio, e davanti gli ha messo una pila di legna. A me è successo lo stesso per mio marito, in cantina,  dove c’era un armadio.

Mio marito lavorava alla Fiat di Avigliana prima di andare in montagna...In fabbrica c’era gente di Rubiana, della Valsangone, di Bussoleno, ma la maggior parte era della Valsangone e di Rubiana. Un giorno i tedeschi hanno detto al Direttore di sgombrare lo stabilimento, nessuno doveva entrare, di andare via di lì perché loro dovevano dar fuoco allo stabilimento. Gli uomini scapparono verso Reano, il più lontano possibile. Le donne, durante la notte, misero un po’ di roba nelle carrette e andarono a nascondersi nelle chiese e nelle siepi. Si pensava: “…se danno fuoco, salviamo almeno i vestiti”

Quella volta sono stata l’ultima ad uscire e ho visto il Direttore che guardava verso le case operaie; mi ha vista con la bicicletta e due borse. Mio marito era già via, era andato alle Grange di Milanere, anche perché lì aveva una casa. Il direttore mi disse: “… povera ragazza, sei ancora qui? Come mai? Sei rimasta sola?”.  Io risposi: “…ora vado alle Milanere”. E lui: “Sbrigati allora, che i tedeschi dovrebbero già essere qui”.

Arrivo così a S. Antonio, quasi in Dora, e c’era un ponte per attraversare la Dora, e giù, lì, c’era la strada piena di tedeschi che non sapevano che strada prendere, perchè  ce n’era una di qua e una di là, e nessuna portava però alla fabbrica.

Insieme a loro, avevano uno che parlava italiano, che mi ha chiesto: “Signora è pratica di questo posto?, noi dovremmo andare alle ferriere”. Io dissi:

“… di qua non si va, deve andare diritto, poi svoltare  a destra, e trova le ferriere… ma c'è tanta strada  ancora da fare". Come facevano a girare tutta quella roba lì, che la strada era colma di veicoli, tanto che io non potevo passare, mancavano solo i carri armati... Non mi hanno detto più niente.

Quando sono arrivata, mio marito ha detto: “Finalmente ho deciso cosa devo fare: domani mattina io in fabbrica non ci vado, non ci vado più”. Io non ho detto niente, lì c’erano anche sua madre e suo padre, ma ci siamo guardati… E così è andato su in montagna nel mese di agosto del '43. Era in Valsangone, 41esima Brigata, con il padre di Fassino Piero, e Nicoletta.

Loro, i Partigiani, erano contenti quando andavano persone come mio marito, che non aveva il dovere di andare a  militare, perché potevano mandarlo di qua e di là,  a fare quello che c’era bisogno di fare. Era anche un vantaggio per la Resistenza….

Io andavo su tutti i giorni, mi ha coinvolta lui…

Mia cognata non mi ha mai seguita, aveva troppo paura. E mai ha detto qualcosa contro. Era una cosa di mio marito e mia, ed eravamo noi a dovercela sbrigare. Io non ho mai avuto paura, a meno che non mi avessero preso i fascisti mentre andavo su da lui. C’erano diverse strade, io non facevo mai la stessa strada. Cambiavo, facendo una volta quella lunga, un’altra quella più corta…Cercavo di non lasciarmi prendere.

L’inizio è stato così: io andavo su e portavo sempre quello di cui avevano bisogno lui e gli altri, da mangiare sempre… Poi un giorno il capo mi disse: “…ma, alla fine, cosa vuole da noi? Lei è qui tutti i giorni, e se poi si porta appresso i fascisti  e tedeschi?” E io: “Un momento, voi non sapete da dove passo io”. Perché nemmeno a loro dicevo da dove passavo. Uno aveva provato a chiedermi da dove sarei passata per tornare a casa, ed io gli risposi che ci avrei pensato strada facendo. Un altro giorno il Capo mi domandò: “…lei non ha niente da fare a casa sua?”

Risposi: “Se voi mi date del lavoro, io sto qui, vado a casa quando farà notte”. Allora lui mi disse: “ Avrei una lettera da mandare su a Favella”

Così iniziai: da Coazze a Favella.

“Domani questa lettera deve essere consegnata!” Quel mattino partii presto, era alto di neve, i parafanghi della bici, dopo due o tre giri, erano pieni di neve e dovevo scendere. Il Capo mi disse pure che ad Avigliana c’era sua mamma sfollata; ma ad Avigliana non c’era la tessera, perché c’erano i partigiani. Allora decisi di andare a Milanere per prendere qualcosa. Là c’era il tabaccaio, aveva la stalla, le mucche, li conoscevo, ero in confidenza, e se potevano qualcosa me la davano. Gli dissi dove portavo la roba, e mi diedero un fiasco di latte, sale, uova. Poi, da un altro, ebbi un pezzettino di bollito; avevo la borsa piena. Come sono arrivata su, dopo una curva, due fascisti giovani mi fermarono: uno con un frustino in mano che faceva girare in continuazione, l’altro m’interrogava. Avevano guardato nella borsa ed io dissi subito: “Sono sfollata a Rubiana, ma non ho da mangiare, e sono andata giù a cercare”. Non mi hanno fatto niente. Non so cosa volevano, mi hanno trattenuta più di un’ora. Un freddo! Perché nel fosso c’era ancora neve… Gli uomini portavano i pantaloni e quindi erano ben coperti, uno aveva anche i gambali, ma allora noi non portavamo i pantaloni, avevo solo lo scarponcino che arrivava alla caviglia, poi un paio di calze di lana che avevo fatto a mano…

La lettera era al sicuro, non nella borsa, avevo posti miei dove nasconderle di volta in volta. Sono poi passata da quella Signora, le ho lasciato la roba che le mandava il figlio. Poi ho lasciato la bici nel cortile, perché dovevo ancora andare su a portare la lettera. Quando sono arrivata a Favella c’erano i partigiani e non sapevo cosa dire… Dovevo andare dal tenente Rosa…

Da allora ho cominciato a fare la staffetta. Andavo tutti i giorni là, da mio marito, e se avevano bisogno di qualcosa, andavo il giorno dopo a portarlo, passavo in mezzo ai tedeschi (a Trana), che si erano stanziati là dopo che il papà di Fassino aveva attaccato la colonna dei polacchi.

Quando io andavo su, c’era una squadra, quando tornavo, un’altra, ed io dovevo cercare di tornare e non trovare la squadra del mattino, perché io dicevo che andavo a fare la spesa, ma se mi trovavano dopo molte ore ancora lì, cosa pensavano? Lì, bisognava sempre far lavorare il cervello, e c’era sempre tensione…Per andare a casa, bisognava passare dal lago piccolo, e venir giù a Ferriera, perché c’erano fascisti lì, e i tedeschi al lago grande.

Mio marito era preoccupato… anche i miei a casa… ma non parlavano, non si facevano sentire dai più piccoli, ma neanche dai più grandicelli.

Dove abitavano, vicino alla ferrovia, c’era la cabina: prima con tre tedeschi, e poi con uno solo. Noi dovevamo andare a prendere lì l’acqua, all’acquedotto. Mio padre aveva chiesto al Comune di aiutarlo a chiedere il permesso alla ferrovia di far passare l’acqua da casa, ma i fascisti gli risposero che lui la casa poteva costruirla al di qua della ferrovia...

Ricordo che di donne in montagna non ce n’erano molte. In Brigata c’era una ragazza che era di Rosta, che aveva il fidanzato lì, e lei gli faceva da mangiare,  ma non andava da un comando all’altro. Aiutava lì a far da mangiare. C’erano poi ragazze che andavano su, e tornavano giù la sera; oppure si fermavano a prendere notizie e poi ripartivano….

Poi, un giorno i tedeschi sono venuti a casa. L’inverno del '44 è stato un inverno freddissimo. I Comuni avevano detto che i ragazzi potevano venire giù e andare a lavorare; nessuno avrebbe fatto loro niente. Su è rimasto mio marito, un Capo, e tre o quattro ragazzi giovani. Avevano bisogno di me.

Una volta dovevano prendere dello zucchero, c’era chi lo metteva  a disposizione, bisognava solo procurarsi un  carro e ce n’era bisogno per la gente. Mio marito andò lui, perché i ragazzi erano in età da militare e se li vedevano in giro non andava bene. Arrivato a Giaveno, si diceva che in giro c’erano i tedeschi. Uno si offrì di nascondere il cavallo nella sua stalla, e anche i sacchi di zucchero. Gran parte dello zucchero venne dato alla popolazione, c’erano anche sfollati… I Partigiani ne portarono su pochissimo per sé.

I tedeschi, dicevo, vennero una mattina a casa, mentre ero a Favella (c’era il comando generale) a portare un messaggio. Non potevo più tornare a casa, e rimasi due giorni e due notti da mio marito. Vennero a casa mia perché quelli che erano tornati dalle montagne, e tornavano in fabbrica, al bar si lasciavano andare a parlare, e qualcuno diceva che dopo l’inverno sarebbero tornati su in montagna. Quando li hanno presi si sono fatti dire i nomi dei capi che erano lassù... Loro hanno detto che c’era qualcuno (prima lo chiamavano Ciro mio marito, poi qualcuno lo chiamava Mondo) di nome Mondo, e che abitava a Ferriera. Allora sono andati in fabbrica, e si sono fatti dire se c’era un operaio assente, e poi si sono fatti dare il mazzo delle chiavi che apriva tutti gli alloggi Fiat, e quindi è stata aperta la porta di casa nostra con la chiave. Il Direttore disse: “Io so solo che questo operaio  è a casa in malattia, di più non so. Se non trovate nessuno, è perché anche la moglie va a lavorare”. L’inquilino che abitava dirimpetto a me, disse subito ai tedeschi che ero da mia suocera. E sono venuti a cercarmi da mia suocera, ed io non ero nemmeno là. Se prendevano me, dopo era obbligato a consegnarsi anche mio marito.

Ho saputo che mi cercavano perché, dove c’era mio marito, è venuto Negarville: lui controllava le Brigate che erano in montagna. Lui mi disse che non potevo più tornare a casa, perché di notte la casa era circondata. Mi diede l’indirizzo di Via Valperga Caluso, 1° piano, a Torino,lì avrei trovato a disposizione persone che mi avrebbero ospitato. A Torino sono arrivata ai primi del ’45... ma è stata brutta! Non avevo soldi, niente vestiti adeguati alla stagione… eppure andavo avanti. Era importante.

Dunque, a Torino c’era una camera a disposizione non utilizzata. Ma lì era un macello: tutte le sere raccoglievano tutti i feriti SAP per le strade, poi li portavano lì, i medici delle Molinette arrivavano, toglievano loro le pallottole che avevano addosso… io stavo lì lo stesso, mangiavo e dormivo. Tutto il caseggiato sapeva di quel via vai. L’uscita era sul balcone della cucina e l’entrata era sulle scale.

Poi mi sono messa a prendere il giornale per vedere se c’era un appartamento da affittare, e  l’ho trovato vicino al deposito dei tram, in Corso Regina...

Sul pianerottolo di quell’appartamento c’era un altro alloggio, di una Signora più o meno della mia età, e da lì guardavamo i tedeschi sgombrare Torino: passavano da via Nizza, c’erano mortai, e ad ogni incrocio sparavano col mortaio. Lo spostamento d’aria mandò le schegge da ogni parte e presero la Signora nella pancia. Quando arrivò l’ambulanza, con una sedia a rotelle e una bandierina, e due o tre col camice bianco, mi dissi che sarei andata con loro, perché non si sapeva cosa poteva succedere; e poi, poverina, lei è morta.

Sono stata fino a marzo in Via Valperga Caluso. Poi mio marito, là in montagna, ha fatto la pleurite e ha mandato giù una ragazza di là per vedere se mi trovava. Andando da lui, mi sono fermata a Trana, dormivamo per terra, ed una ragazzina di 13 anni è venuta a dirci di scappare perché i tedeschi venivano su dalla strada. Siamo passati nel bosco. Erano gli stessi che erano venuti a cercarmi a casa ?...

Sul piazzale ho poi trovato mio marito ed altri; un ragazzo aveva una fila di bombe a mano. Non si vedeva nessuno venire... Eppure la ragazzina aveva detto che c’erano i tedeschi. Il ragazzo disse che sarebbe andato giù lui. Scesi io invece. A metà sentii i tedeschi che mi davano il “chi va là” e poi saltarono fuori. Avevano un interprete. Mi fermai. Uno mi fece il segnale di scendere. Giù c’era una panca, erano seduti lì, e c’era ancora un posto e  mi fecero sedere. “Come mai si trova qui in questi posti?” “Ma vi rendete conto che giù a Trana non c’è niente da mangiare? Io sono venuta a cercare frutta. Qui hanno tanta frutta, se vogliono darmela. Io la pago, solo devo trovarla” Ce n’era veramente, ed era buona, mele, pere, solo che non la davano facilmente. Sono stata lì un bel po’. Avevo lasciato la borsa su, non avevo documenti. Ho chiesto: “Andate giù a Trana? Vengo giù con voi… ma devo trovare un po’ di frutta prima” “No, no, se lei deve cercare frutta, se la cerchi, poi la strada che ha fatto per salire su, se la fa a tornare giù”. Potevo andare via. Ho fatto la scena chiedendo se veramente potevo andare. Mi dissero di si, ma avevo paura che a metà strada mi sparassero alla schiena… l’avevano fatto altre volte,  potevano farlo anche a me. L’ho fatto al volo quel tratto fino all’albergo. L’albergatore preparò cena, ma io avevo perso la fame.

Una volta, da Torino mi mandarono l’indirizzo di un posto a Trana. Bisognava fingere di essere una coppia, ma io ero solo una donna sposata, e mio cugino diceva che non andava bene, e così lui e un’altra ragazza han preso il mio posto.

Poi, con la scusa di prendere del latte alla centrale una volta la settimana, andavo a Villarfranca Piemonte, lasciavo una lettera e ne prendevo un’altra dal panettiere. Mi muovevo col pullman del latte. Un’altra volta andai a Carmagnola. La sera arrivai a Porta Nuova e andai al rifugio; quando sentii l’annuncio del treno per Carmagnola, uscii. Ce n’erano che non andavano nemmeno a casa, mangiavano lì... Il rifugio era proprio sotto Porta Nuova.

Una sera dovevo andare a prendere il treno; prendo il tram per la stazione e non c’era nessuno, solo un fascista. Ho pensato che dovevo scendere perché non avevo soldi, andare a casa, a prendere il portafoglio, fare tutto di corsa perché poi c’era il coprifuoco, e non facevo in tempo. Comunque, quella sera il fascista mi ha pagato il tram. “Ma adesso dove va lei?” “Devo prendere il treno per Carmagnola, perché ho dei parenti che stanno male, devo arrivare…” “E i soldi?” “Adesso vedo…” E’ andato a prendermi il biglietto per Carmagnola, così quella volta l’ho aggiustata.

La prima volta che ho preso il pullman del latte ero la più giovane, sul pullman c’era solo gente in pensione, si mettevano sui bidoni del latte. Era pieno. All’arrivo, non prendevano subito il tram per tornare indietro. I fascisti aspettavano quello che tornava indietro, perché oltre al cibo ci poteva essere “qualcos’altro”. La mia amica la facevano sedere davanti, perchè la conoscevano, io no perché non sapevano chi ero.

Quando sono arrivata a Villafranca Piemonte, tutti sono scesi, e uno mi ha detto: “Lei venga con me, dove deve andare?” “Vado a cercare da mangiare”. Siamo andati avanti per un’ora, due “Ora mi è venuta fame, sa mica se c’è una panetteria qui? Una mia amica di queste parti dice che c’è una panetteria”. Sono andata nella panetteria, proprio quella che cercavo, gli ho dato una lettera, lui me ne ha data un’altra. Poi mi ha dato il pane e un po’ di farina. Tornata indietro ho detto: “Ha visto, mi ha dato non solo un po’ di pane, ma anche la farina”. La seconda volta che sono andata, non mi hanno più fermata. Un giorno la panettiera mi ha fatto trovare anche il burro. Quelli del latte non mi hanno mai chiesto niente. Una volta, poi, mi hanno chiesto se volevo andarmi a sedere davanti. Un’altra volta ci siamo dovuti buttare giù dal pullman perché mitragliavano.

Ricordo a Torino, che una volta ero in tram, in via Madama Cristina, e stavo andando da mio marito in ospedale, ad un tratto dissi a uno lì vicino: “Ma non sente che gli apparecchi seguono il tram?!”, pensai che la cosa non  mi piaceva, e prima di entrare in Piazza Carducci sarei scesa. Così ho fatto, e quel tizio è sceso anche lui. Abbiamo avuto il tempo di infilarci nell’androne di un palazzo ed è venuto giù polvere, vetri… Nel tram non se n’è salvato nessuno. Erano americani che bombardavano.

Io non ho mai usato armi, ho fatto di testa mia, pensavo fosse meglio così…

La liberazione era nell’aria… Ricordo che ero andata a Caselle (da Torino) e avevo fatto un giro lungo perché avevano buttato giù il ponte. C’era un viale, e vicino una cascina, e lì c’erano due giovani in contatto con i partigiani. Quel giorno ho portato loro una lettera, e ho saputo dalla loro mamma, poi, che diceva che dovevano andare su dai partigiani e tenersi pronti a scendere per liberare Torino. Lì intorno c’erano tutti carri armati tedeschi. E gli americani facevano i bulli...

La gente del mio paese non sapeva o faceva finta di non sapere quello che facevo. Io andavo abbastanza in giro, ma non ne parlavo. Poi sono andata a Torino e chiuso. Il rapporto con la mia famiglia lo mantenevo tramite una mia zia che lavorava alla Philips, e ogni tanto veniva a Torino in Piazza Vittorio. Io facevo di tutto per poterla incontrare, poi, prendeva il treno e tornava a casa. Lei mi ha detto dell’uccisione di Robotti… eh, anche quella è stata una delazione…

A marzo abbiamo capito che la liberazione si avvicinava. Io non facevo parte del Comitato: prendevo ordini, eseguivo e stop. Però nell’aria si sentiva, si capiva.

In Via Valperga Caluso c’era una signora che aveva un negozio di commestibili. I fascisti le avevano ammazzato il fratello, e le due figlie del fratello. Mi dava sempre da leggere e le gallette. Potevo comprare solo mele… frutta. Mi davano poche lire al mese e non potevo di più. Poi, quando andai via da lì, andai da una signora che era vedova, ed aveva un bellissimo alloggio. In una camera c’era un dentista. Io pagavo l’affitto. Dovevo studiare come passare la giornata, perché altrimenti lei si insospettiva. Allora le ho detto che dovevo andare a scuola, e mia marito lavorava nella TOT.

A volte, alle 8 di sera, dovevo andare a incontrare qualcuno in piazza Vittorio o a Porta Nuova. Vestivo sempre uguale, perché non avevo roba da mettermi, ero sempre vestita di nero. Mi portavano una lettera, e mi dicevano a voce: “Domani devi andare lì o lì” Agli appuntamenti veniva sempre uno diverso. Ad esempio aspettavo alla fermata del tram fin quando non scendeva la persona interessata, io dovevo solo prendere gli ordini, eseguire e basta. Bisognava tenere gli occhi aperti. Una volta non riuscivo proprio a capire chi potesse essere la persona giusta scesa dal tram. Vicino c’era un giardinetto, con una panchina, e mi sono seduta lì. Ed infatti dopo si è avvicinata la persona che aveva la mezza moneta che coincideva con la mia metà. Era pericolosissimo. Andare su in montagna non era pericoloso come stare in città e presentarsi ad uno che non si conosceva. Adesso che ci penso… senz’altro quando si è giovani... ora ci studierei! Però i fascisti si riconoscevano dal viso, avevano qualcosa…

Poi è successo che son venuti giù tutti i Partigiani.

Io, ad esempio, ho portato l’avviso a Caselle e di lì si è avvisato su. I tedeschi han riordinato le loro truppe, mica erano stupidi. In Via Nizza c’erano i mortai, in via Madama Cristina c’erano i carri armati e le motorette. Hanno poi tirato su per Chivasso…

Negli incroci, dopo che Torino era liberata, c’erano cecchini, tanti…

Qualcuno, poi, ha voluto fare i conti con le ragazze che se la intendevano con fascisti e tedeschi (rasatura capelli…)… sembrava che avessero fatto chissà cosa! Io pensavo: “Se quelle ragazze avessero fatto la spia, noi saremmo stati presi molto prima… Uscivano con quei neri, coi tedeschi… lasciale fare, se quelli sono impegnati con le ragazze, non vanno per la valle a dar la caccia a noialtri. Dovevano avere quel minimo d’intelligenza…”

Anche mia suocera e mia cognata non hanno avuto fastidi; io sono stata fortunata, tranne quella volta che sono venuti i tedeschi a casa. Quando sono andati da mia suocera lei ha detto: “Per noi nostra nuora e nostro figlio non sono più figli. Han fatto di testa loro… non sappiamo neanche dove si trovano”

Ricordo una volta che mi sono spaventata veramente. Attorno al 25 aprile, dal Comitato, che era in zona S. Paolo, Negarville mi disse di accompagnare un ragazzo fino alle Molinette, era ferito, ma poteva guidare la macchina, io dovevo solo accompagnarlo. All’ospedale, nei corridoi, c’erano un mucchio di ammalati, lo lasciai lì e feci per uscire, ma ogni porta era chiusa. Incontrai un medico amico, che veniva a curare i feriti in via Valperga Caluso, e mi disse che tutto era chiuso perché era scappata la torturatrice di via Asti, e si era nascosta lì. Mi portò alla mensa e mi offrì la sua stanza per dormire, perché lui era di turno. Verso le due di notte sentii bussare alla porta, non risposi. Poi una voce mi disse: “Apra perché sappiamo che c’è, se non apre spariamo”. Mi sono vestita e ho aperto. C’era un toscano che era il capo, e poi due ragazzi col mitra. Si è seduto, si è tolto la camicia e mi ha fatto vedere la schiena: tutto una crosta. Con la sigaretta una ragazza bionda gli aveva fatto quello. “Ma io non son mica bionda” “Già, perché noi non sappiamo che le donne si tingono i capelli”. Pensavano che fossi io la torturatrice nascosta. Gli ho fatto vedere i documenti, ma non sembrava interessare. Il toscano mi disse: “ Io ho perso un occhio, le unghie, e non verrebbe voglia di torcere il collo a quella lì?” “Oh, sì sì, se la prendete”. Lui si era calmato un po’, ma gli altri due facevano paura. Io non sapevo più cosa dire, gli dissi che sarei andata via, alla Lancia, al Comitato dei partigiani. Disse ai suoi di mettere giù le armi, e che l’indomani sarebbe tornato per un confronto, e per decidere. Intanto io fuggii dalla finestra, a pianterreno, e mi nascosi tra le case in via Nizza, in attesa che si facesse giorno, perché di notte sparavano tutti. Alla sera prima, Negarville aveva chiesto di me, ma nessuno sapeva niente. Ho saputo poi che aveva detto alla ragazza, che era andata al posto mio ad accompagnare un ferito, di pregare che io ritornassi, altrimenti guai. Al mattino andò alle Molinette, ma io non c’ero più. Quella fu l’unica paura che ho avuto veramente, perché quel toscano non riusciva a calmare quei due col mitra.

Poi, finalmente, siamo rientrati a casa: io sono tornata a Maggio, mio marito dopo.

Certamente abbiamo dato uno scossone al modo di vedere le donne in quel tempo. E se non ci fossero state le donne, non so come molti partigiani sarebbero andati a finire…

Del messaggio della Resistenza si è fatto di tutto per soffocarlo dopo; ma se non ci fossero stati i partigiani la guerra sarebbe durata più a lungo e sarebbe stata dura per tutti poi.

Una volta tornata a casa non mi sono più interessata di politica... non bisognava dire che si era stati coi partigiani, perché donne; e  gli uomini anche, semplicemente perché i tempi erano cambiati, e non come volevamo noi. Bisognava riprendere e non era facile. Mio marito a volte diceva: “ ma con tutto quello che la gente ha  passato, bisogna ancora ripeterlo? Se ne sono già dimenticati?”

Poi ho detto: “Basta con tutto questo, ora voglio un figlio”, e per allevare un figlio non bisogna pensare ad altro… Mio marito è tornato alla FIAT.

Mio figlio è nato il 26 febbraio del 1946.

Quarant’anni fa sono tornata in Alpignano.

 

testimonianza raccolta da Mariella De Vietro