62 anni fa, nel
gennaio 1945, tedeschi e fascisti alleati misero in atto feroci
rastrellamenti in tantissime località del nord Italia. Volevano
liberare quelle zone dalla presenza partigiana, per poi potersi
dedicare alla difesa della linea gotica.
Mi avvalgo, in questo scritto che Le chiedo di pubblicare, dei miei
ricordi personali, di quelli di tanti altri compagni partigiani ed
anche della relazione del Comando della 17° Brigata Garibaldi
“F.Cima “ del 6 marzo 1945 firmata dal Comandante Deo - Tonani
Amedeo di anni 21 nato a Cremona, perito agrario.
E’ una relazione sul massiccio rastrellamento del 10 gennaio 1945,
che spiega la “grande beffa”, scritta da Deo con un mozzicone di
matita mentre, ferito alla coscia destra, è nascosto nella baita di
Ettore Bertolo a Nevarussa, nelle vicinanze di Monpelato, nel comune
di Rubiana. Tale nota è pubblicata in originale sul mio libro “Deo e
i cento cremonesi in Valle di Susa”.
Un analogo rastrellamento, sapremo poi, era partito negli stessi
giorni da Genova, Chiavari, Parma, Borgotaro, Piacenza per chiudere
in un cerchio di fuoco i partigiani sulle colline del Parmense e del
Piacentino. Tra i tanti eccidi avvenuti il giorno 11 gennaio a
Bramavano, vicino a Bettola, verranno uccisi i cremonesi Carlo
Gilberti, Lorenzo Gastaldi, Giovanni Canevari, Gino Spagnoli.
Il comando tedesco - in collaborazione con Mussolini - aveva deciso
di sferrare un colpo possibilmente decisivo alle formazione
partigiane del nord per concentrarsi poi sulla linea Gotica, per
ostacolare l’attacco degli alleati verso la liberazione delle zone
del nord e quindi dell’Italia.
Ognuno di noi, che ricoprivamo responsabilità di Comando in valle di
Susa, aveva passato il Natale nei vari distaccamenti. Deo era al
“Faleschini”, distaccamento composto in maggioranza da cremonesi;
io, Kiro, ero a Col San Giovanni, crocevia per Viù, Usseglio e Valli
di Lanzo; Pucci, il vice comandante Sergio Rapuzzi, anch’egli di
Cremona, al distaccamento Mulatero; Renzo, ingegnere milanese,
al Girotto; Icaro, laureando in ingegneria di Reggio Calabria,
al Tolmino.
Era un momento nel quale anche per noi si rendeva possibile un poco
di festa. La situazione pendeva bene, l’Armata Rossa era all’attacco
e sconfiggeva il mostro teutonico che era giunto alle porte di
Mosca; la ‘volpe del deserto’, il gen. Rommell, era stato sconfitto
in Nord Africa: tutto faceva prevedere un esito positivo della
guerra contro Hitler e Mussolini.
Le forze produttive della Val Susa erano diventate più aperte e
disponibili nei confronti della Resistenza. Non solo cominciavano ad
arrivarci un po’ di vestiti, scarpe, farina e cereali, ma
l’industria dolciaria Venchi Unica, ad esempio, aveva dirottato
verso le zone partigiane i panettoni diretti alle brigate nere, con
grande festa anche per i bambini dei montanari. Festeggiavamo in
quei giorni anche il ritorno di una delegazione di partigiani
partita qualche giorno prima con le cabasse colme di pacchi di carne
ricavata dal bestiame prelevato alla Mandria del Re di Venaria
Reale. Avevamo confezionati i pacchi legandoli con nastri tricolore
per sottolineare la circostanza ed andavamo a consegnarli, come
omaggio natalizio, a circa una decina di famiglie isolate in alta
montagna, che di carne non ne vedevano mai. Castagne secche (i
mundui), tùma e polenta era il loro cibo. Grande festa anche per
quella gente, tanto modesta e generosa, abituata a grandi fatiche
per strappare una manciata d’erba da una terra ingrata.
Senza quella gente, non si sarebbe potuto organizzare la guerra
partigiana; senza quella gente molti di noi, che venivamo da
lontano, non sarebbero sopravvissuti al freddo e alla fame o alla
bestialità delle SS, delle brigate nere o dalle belve delle squadre
della morte ubriacate da alcool o droga. Questi incontri del Natale
’44 avevano facilitato una maggiore conoscenza reciproca ed un
amalgama sempre più utile alla causa comune.
Il 3 gennaio 1945 il SIM (Servizio militare informativo) ci aveva
avvertito di un potente rastrellamento imminente nella valle da noi
presidiata. Il gen. Graziani – ministro della guerra del governo di
Salò - aveva passato in rassegna le truppe ad Avigliana. Si parlava
di 10mila uomini impegnati e di 5mila rastrellatori. Tanti tedeschi
e tantissime brigate nere e corpi specializzati fortemente armati.
Il rastrellamento era stato fissato per il 10 gennaio.
La cosa non poteva non sollevare in noi forti preoccupazioni. Come
affrontare un tale attacco con un armamento non certamente alla
pari, con una salute e uno stato fisico dei partigiani non
certamente nelle forme migliori per gli stenti e le fatiche con neve
e freddo intenso? Insufficienti erano i viveri, la disponibilità
di scarpe e vestiario in genere, con le mulattiere e sentieri tanto
innevati da precluderne l’uso per ogni via di ritirata. Il rischio
era di rimanere inchiodati ai piedi del monte Civrari e morire tutti
per il freddo, la fame o per un colpo alla nuca. Avevamo inoltre
l’esigenza di difendere la vita della popolazione locale e degli
sfollati. Forti erano le preoccupazioni per i nostri 500
garibaldini e per i restanti 3mila partigiani di varie formazioni
presenti in tutta la valle di Susa - da Collegno a Susa, alla
frontiera. La situazione era difficile e gravi le
responsabilità. Va inoltre considerato che eravamo tutti giovani,
inesperti, impauriti, con i pensieri rivolti soprattutto alle
famiglie, ai figli, alle case lontane. Nessuno ci aveva imposto
di fare la scelta della montagna, se non le decisioni assunte dai
governanti di un regime intollerante, resi prepotenti dal potere e
dalla guerra in atto da cinque anni scatenata per ragioni di razza,
per distruggere il diverso e far trionfare una razza sola, quella
ariana!!
La decisione di un rastrellamento di tal natura era stata presa
anche in altre zone come l’Emilia del nord. Dalla Cisa al Lama a
Cotogno vi erano cremonesi impegnati nella battaglia partigiana. Da
Genova, Chiavari, Borgo Taro, Parma, Piacenza, Voghera - cercando di
chiudere in cerchio alcune migliaia di partigiani - vengono
impegnati 4500 tedeschi, brigate nere, mongoli. A Bettola si ebbe
una delle fasi più cruente di questo scontro. Oltre 40 partigiani
vennero catturati e torturati. La notte dell’11-12 gennaio vennero
tradotti a Bettola al Comando tedesco. Da qui prelevati ed
accompagnati in una insenatura del Nure nei pressi di Bramaiano e
finiti con un colpo di pistola alla nuca. Tra questi vi erano i
cremonesi Carlo Gilberti, Lorenzo Gastaldi, Giovanni Canevari, e
Gino Spagnoli. A Castellarquato, qualche giorno prima, era stato
fucilato Francesco Marzano, pure lui di Cremona. In questa
operazione venne coinvolto anche il gruppo dei castelleonesi delle
Brigata Giustizia e Libertà, nella quale Serafino Corada era
il direttore responsabile del giornale “Il Grido del Popolo”.
Si deve considerare che questi rastrellamenti erano stati decisi
dopo una campagna intensa attorno al proclama del Gen. Alexander del
Comando Superiore delle Forze armate Alleate in Italia, emanato il
13 novembre 1944, che invitava i partigiani a rinunciare alla lotta
per i mesi invernali e di riprendere a primavera. Proposta che fu
respinta dalla grande maggioranza dei partigiani anche per la sua
impraticabilità nei confronti dei partigiani di origine estera e di
regioni lontane (russi, slavi, francesi, polacchi ma anche
meridionali e lombardi, come noi cremonesi). Dopo qualche tempo
al proclama Alexander si era aggiunta l’offerta di amnistia del
governo fascista di Salò. Venivano promettendo perdono, lavoro,
rispetto per chi tornava a casa: promessa assolutamente
infondata, per un regime nel quale chi era contro veniva eliminato.
Si andavano aggiungendo poi le profferte dei tedeschi, specie in
montagna. Venivano fatte giungere ai comandanti partigiani offerte
di creazione di zone di “rispetto o di tregua” per il periodo
invernale. La manovra era assolutamente scoperta in quanto i
tedeschi, disimpegnati così in quelle zone, si sarebbero potuti poi
trasferire con i propri mezzi di trasporto in altre zone per
schiodare posizioni difficili, come da noi in Val Susa oppure
nell’appennino emiliano. Queste proposte di smobilitazione
avevano l’obiettivo di determinare un disimpegno dell’Italia nella
battaglia finale contro tedeschi e fascisti, da far pesare poi
negativamente domani, al tavolo delle trattative di Pace.
Disegno scongiurato proprio per la decisione presa dai partigiani di
restare, sfidando anche il prevedibile duro inverno.
In Valle di Susa diverse furono le discussioni, anche animate,
tenute nei vari distaccamenti. C’era chi chiedeva di accogliere il
proclama del Gen. Alexander di ritirarci per tornare a primavera. A
loro rispondevano coloro che sostenevano che si dovesse resistere a
tutti costi, perché altri compagni in quei posti avevano combattuto
e trovato la morte. La nostra era una guerra di liberazione che
bisognava domani far pesare nelle trattative di Pace con le forze
Alleate. Se si disertava non si sarebbe potuto chiedere, come si è
poi chiesto ed ottenuto, almeno il riconoscimento dell’Italia come
forza cobelligerante.
Dopo consultazione anche con i comandanti di grado superiore, venne
approvata una proposta di azione nata da esperienze, si diceva, di
partigiani Jugoslavi. Consisteva in uno svallamento, scendendo in
pianura nella cascine alla periferia di Torino, divisi in piccoli
gruppi, collocandoci in tutta la fascia di pianura a nord,
mantenendo evidentemente i collegamenti tra i gruppi e il
coordinamento tra i distaccamenti e tra questi il Comando di
Brigata, pure esso in zona. Scendere, mentre il nemico saliva,
facendogli trovare il vuoto. Grande sarebbe risultata la
responsabilità dei contadini circa l’ospitalità e la riservatezza.
Così si decise, e le notti del 7 e 8 gennaio si effettuarono gli
spostamenti, con le dovute attenzioni, a piccoli gruppi; dopo aver
ben nascosto le armi pesanti, i pochi viveri, coperte, vettovaglie e
altro, seguendo vie non conosciute. L’operazione nel suo complesso
si svolse positivamente. Il 12 mattino, alle ore 10, Deo doveva
tenere la riunione dei Comandanti di distaccamento nell’interrato
sottostante la sagrestia del Santuario di San Pancrazio (Pianezza),
per esaminare l’andamento delle operazioni e il conseguente da
farsi. La riunione non si terrà, perché Deo venne ferito durante il
tragitto.
Il 4 gennaio, di ritorno dal distaccamento Mondiglio, dove si era
discussa ed approvata la linea della discesa su Torino, linea fatta
propria poi da tutti, venni raggiunto da una piacevole notizia.
Erano arrivate da Cremona mia moglie e la mamma di Deo, accompagnate
da Primo Binaschi – padre del partigiano Brik - e nostra staffetta
per i collegamenti con Cremona. Avevano deciso di venire a vedere
dove si trovavano i loro cari, ovviamente all’oscuro di quel che
bolliva in pentola circa il rastrellamento annunciato per il 10
gennaio. Non venivano in zona di villeggiatura, ma in zona infestata
da “Bànditèn” – come ci chiamavano i tedeschi. Non area di
villeggiatura ma di guerra. Gli alberghi erano tutti chiusi, così i
ristoranti o luoghi di pernottamento pubblico. Al piacere di
rivedere persone care, sprovvedute e spaventate dal mondo così
strano che stavano conoscendo (mia moglie non aveva riconosciuto né
me né suo fratello Renzo – Bomba – totalmente cambiato per la folta
barba), si univa una seria preoccupazione di come e dove ospitarle.
Nelle case private, anche di famiglie amiche, non era possibile.
Sulla porta di casa di ogni famiglia, infatti, era obbligatorio
esporre lo ‘Stato di Famiglia’ rilasciato dal Comune per controllare
i residenti. La questione dell’ospitalità alle due gradite
ospiti, venne risolta da una proposta saggia e coraggiosa del
parroco di Monpelato, don Evasio Lavagno, proprio avvalendosi
della ‘Stato di Famiglia’ appeso alla porta della sua casa. La
sorella e la nipote del parroco, segnalate su tale documento,
vennero inviate da parenti in bassa valle e il loro posto occupato
dalle due donne: Rina Tonani in sostituzione della sorella e Maria
Pellini, mia moglie, in sostituzione della nipote. La scelta di Don
Lavagno era certo audace e metteva in pericolo la parrocchia,
l’intero paese e la sua gente. In quella, come in tantissime
altre occasioni, Don Lavagno ha meritato tutte le migliori
considerazioni come parroco, ma soprattutto come uomo e patriota.
Ha dimostrato un sentimento vero e sincero verso la Resistenza.
Aveva stima dei partigiani come ragazzi seri, impegnati in un opera
forse più grande delle loro reali possibilità. Verso quelli che
venivano da lontano manifestava particolari attenzioni e in specie
verso i cremonesi, per le responsabilità da essi assunte. Con i
cremonesi, assieme all’altro parroco nostro cappellano militare
di brigata, viveva qualche ora in compagnia, tra le cose serie e
anche tra le risate, le barzellette e le battute di Bomba o le
‘stranfognate’ dialettali di Jena e Pineugia (Dino Chiappani del
Bosco e Dante Pini di Porta Po). Il cappellano si chiamava Don
Aldo Varisio – nato in valle, alpino, non si staccava mai dalla sua
divisa, completata da una grossa Croce Rossa sul petto - diverrà
successivamente Generale di Brigata Comandante del Corpo dei
Cappellani militari dell’Esercito Italiano.
Dunque, si è proceduto nel senso indicato dal Parroco con
soddisfazione di tutti. Il pensiero prevalente era la manovra di
sganciamento verso la pianura, che doveva iniziare la notte del 7, e
la potenza del rastrellamento. I distaccamenti stavano procedendo a
nascondere, tra rocce e buche, le armi pesanti e ciò che era
possibile di vitto e vestiario, coperte, scarpe ecc. Il
distaccamento Faleschini doveva far saltare il ponte di Rubiana,
cercando di convincere gli abitanti interessati ad abbandonare
provvisoriamente le proprie abitazioni. I ponti più a nord, forse
una decina, erano stati fatti saltare da Cesare, esperto
dinamitardo toscano. Lo stesso distaccamento doveva preparare
la catasta di legna da far ardere nella piana oltre il Col del Lys
per segnalare ed accogliere l’annunciato “lancio” alleato di armi e
viveri. La legna ardeva quella notte, le fiamme erano alte, ma non
si videro né aerei e tantomeno i lanci, con grande rammarico e ira
di tutti. Altro ruolo importante del Faleschini era di “richiamare”
con finte scariche di mitra, sempre più in alta valle, i
rastrellatori per distrarli, e facilitare, con questa “azione
civetta”, l’opera di svallamento del grosso della Brigata.
Avevamo saputo che il nemico stava bloccando ogni sbocco di valle
per la pianura. Condove, Novaretto, Almese, Valdora, Caselette,
Brione, Valdellatorre, Givoletto, Fiano, Viù, Lemie e Usseglio erano
presidiate dai tedeschi e fascisti, e tutto era sotto il loro
controllo. Noi non avevamo ancora visto i nostri famigliari, giunti
da Cremona e ospiti in casa parrocchiale. Tra la neve, il freddo, la
fame eravamo in giro per controllare che tutto funzionasse per il
meglio, dai nascondigli allo stato d’animo dei garibaldini,
impegnati in una prova di grande responsabilità.
La sera del 9 gennaio, prima di recarci nei nostri posti, la mamma
di Don Lavagno ci aveva invitato per una frugale cenetta, per
festeggiare le due donne così ardimentose. Una cenetta con risotto e
funghi, pollo ed insalata, tante mele cotte nel forno della stufa a
legna, buonissime e di un profumo inebriante. Pucci, che aveva un
bella voce tenorile, cantò pezzi d’opera, tra le quali la “gelida
manina”, trasmettendo in noi fortissime emozioni. Ogni tanto il
prete usciva a contattare le sue sentinelle appostate in punti
strategici, per vedere di individuare le punte avanzate del
rastrellamento. Ma, con grande rammarico, quel momento gioioso
doveva finire, ed ognuno andare al proprio posto di combattimento.
Deo si vestì in fretta, cedendo la giacca di pelle per indossare un
soprabito borghese, anche per mimetizzarsi, con pistola carica in
tasca. Doveva trovarsi il mattino successivo, alle ore 10, al
Santuario di S. Pancrazio (Pianezza). Pucci ed io dovevamo tornare
al “Faleschini” per un aiuto nell’opera di carico del lancio e del
resto dell’azione civetta. Tra qualche bacio e i saluti, la mamma di
Deo propose che io rimanessi ancora un po’ con Maria, che non vedevo
da tanto tempo! La proposta era lusinghiera, ma era destinata ad
andare a vuoto, anche perché il corpo e la mente erano lontani,
troppo presi da ciò che si poteva verificare fuori o giù in pianura.
Ero coricato con gli scarponi ai piedi, per affrontare ogni
evenienza, e con mia moglie si parlava di Rosalba, la nostra bimba
di due anni, e dei suoi progressi, quando don Lavagno bussò e,
preoccupato, ci avvertì che il rastrellamento era già alla periferia
del paese.
Il momento fu drammatico perché il pericolo era altissimo. Il
parroco mi suggerì di scendere dal retro del cimitero e di
avvicinarmi alla casa di Ettore che, allertato e in attesa, mi
sarebbe stato certamente di aiuto. Scesi tra un nevischio spesso e
pungente e sentii in lontananza il latrare dei cani da
rastrellamento dei tedeschi. Tanta la paura, ma tanta anche la
voglia di stare sul chi va là - con pistola carica e pur pronta
anche all’uso su se stessi, così come ci era stato consigliato - e
cercare comunque di sopravvivere a una tragica prospettiva. Al
sentore di un vociare represso, nascosto in una insenatura del
torrente Nevarussa, vidi passare in lontananza, a passo svelto, una
pattuglia di partigiani del “Girotto” che si allontanavano dalla
zona calda. Mi avvicinai alla baita, e Ettore, che era in attesa,
provvide a trovarmi, nei pressi, una insenatura a grotta del
torrente Nevarussa, suggerendomi di camminare nell’acqua per
raggiungerla, in modo da far perdere l’orma al fiuto dei cani, e di
attendere calmo il suo ritorno. Mi sentivo rassicurato dalla sua
presenza: un contadino abbastanza giovane del posto, che conosceva
palmo a palmo il terreno che lo circondava, e il corso del torrente.
Dopo un po’ arrivò con un tegame di latte bel caldo e polenta
fresca, facendomi tornare alla mente la “pùta”, usanza cremasca di
polentina molle in latte freddo appena munto, salato, che la mamma
mi somministrava a colazione, tanti anni prima. L’albeggiare intanto
si era imposto. Mentre Ettore mi rassicurava che, in base al
comportamento dei cani, il rastrellamento in quella zona per il
momento non sarebbe arrivato, videro giungere la mamma di Ettore, di
ritorno da Monpelato per la Messa. Piangente e disperata, raccontò
di aver visto Deo ferito, pallido, che entrava in casa parrocchiale
per salutare la mamma. Deo non sapeva che dopo la loro partenza, le
brigate nere, giunte a Monpelato, avevano occupato la casa
parrocchiale, usandone gli ambienti per la notte. Le due donne erano
state in precedenza sistemate in una stanzetta separata e vestite
alla montanara, fingendo di rammendare biancheria. Era stato
raccomandato loro, dal Parroco, di non parlare con nessuno e, se
interrogate, di rispondere con mezze parole e gesti. La
raccomandazione era motivata dal fatto che la loro pronuncia
lombarda poteva far scattare il sospetto, il fermo,
l’interrogatorio, l’arresto, con tutto quello che poteva accadere a
loro ma anche a tutti gli altri. Intanto le baite qua e là
bruciavano, spari e raffiche di mitra spiegavano, in maniera
esplicita, sino a che punto poteva arrivare l’azione punitiva.
Finita la cena, Deo era partito camminando nella notte, per
raggiungere l’appuntamento in San Pancrazio. Bisognava varcare, a
Madonna della Bassa, il passaggio per Valdellatorre e quindi la
piana, tra i due fabbricati del Santuario. Arrivato a quel punto gli
si era presentata davanti una pattuglia tedesca. Senza por tempo in
mezzo aveva sparato su due militari più vicini. L’allarme lanciato,
aveva messo in movimento il resto delle numerosa pattuglia, che
aveva cominciato a sparare nella direzione del fuggiasco, lanciatosi
a pesce in una zona che ben conosceva, per avervi vissuto alcuni
mesi. Nella sparatoria che ne seguiva, Deo veniva ferito alla coscia
destra. Trascinandosi per i vari valichi, era rientrato in val Messa
(Val Rubiana ) per
ritornare al punto che sperava sicuro: la mamma ospite dal Parroco a
Monpelato. Passato il resto della notte di baita in baita,
medicandosi con lembi di camicia, giunse al mattino, sfinito, in
parrocchia. I rastrellatori erano usciti presto per proseguire il
rastrellamento, e Deo era entrato, incontrando la mamma e mia moglie
che stavano riattando la stanza. L’incontro fu drammatico, tra il
cuore di una madre di fronte ad un figlio ferito e pallido e le
responsabilità in gioco. La signora Rina – pur con il cuore
spezzato - non esitò un attimo a scongiurare, a pregare ed anche ad
ordinare al figlio di andarsene subito perché se i tedeschi o i
fascisti avessero scoperto la sua presenza, avrebbero fatto di quel
paese. e della sua gente. una strage. Il figlio, senza batter
ciglio, cosciente della situazione e della responsabilità, prese
delle bende e del disinfettante e sparì. E’ forse in quel frangente
che viene visto dalla mamma di Ettore, e che riferirà angosciata a
me ed a suo figlio. Assieme ad Ettore, mi lanciai alla ricerca di
Deo, tra cespugli e scorciatoie che solo lui conosceva. Seguendo
piste isolate giungemmo ad una baita molto ben nascosta. Deo era lì
assopito, pallido e anche un po’ sfiduciato. Lo raccogliemmo e,
sempre per vie impervie e nascoste, lo portammo alla casa di Ettore
dove il padre, nel frattempo, aveva provveduto a mettere a punto un
nascondiglio. Deo rimarrà lì, sistematicamente assistito da don
Lavagno e dal dott. Chiò, farmacista sfollato da Torino, amico
dei partigiani. Sarà visitato anche dalla madre che, vestita da
buona montanara, raggiunse felice il suo ragazzo intrepido, che
aveva superato quella difficile situazione. In 25 giorni guarì dalle
ferite e anche da disturbi polmonari che, in precedenza, gli avevano
provocato parecchio malessere.
La riunione al Santuario di San Pancrazio non si tenne per la
mancanza di Deo, provocando giustificate preoccupazioni nei
distaccamenti: quella con destinazione Varisella fu parzialmente
sciolta, in quanto si era sparsa la voce, diffusa ad arte, che in
montagna il Comando era stato giustiziato per intero e che le
formazioni partigiane erano scomparse. I Comandanti dei
distaccamenti presenti stentavano a credere, anche se non si
potevano fare verifiche. In sostituzione di Deo, io fu inviato in
bassa valle, con il compito di fare il punto della situazione e di
dare informazioni circa la ferita del Comandante, che ne impediva la
presenza. Con la collaborazione di Bambù, Pino Monfrino, Verona, e
Mario, si ricucì la situazione, mettendo insieme i distaccamenti,
anche se in parte ridotti, perché alcuni uomini si erano ritirati ed
altri, del posto, debitamente autorizzati, si erano sistemati
provvisoriamente presso familiari e parenti, anche per non pesare
sulle finanze sempre più povere della Brigata. Comunque, disponibili
al rientro in qualsiasi momento. In montagna il rastrellamento
continuava a pelle di leopardo. Il distaccamento Faleschini era
riuscito a far correre il nemico da una rampa all’altra alla caccia
di “nessuno”: la tattica dello “spara e sparisci” aveva dato i suoi
frutti. Negativa invece la situazione del lancio che gli alleati
avevano promesso.
Il giorno 11 gennaio con attacco improvviso i tedeschi e fascisti
riuscivano però ad entrare nella borgata Suppo, sede del
distaccamento uccidendo Eugenio, ex carabiniere di Verona,
e facendo una decina di prigionieri, tra i quali Tavin e Jena di
Cremona e Tancredi di Forlì. Si salvarono miracolosamente
Bomba e Merego, mentre un gruppo, fortunatamente, si era sganciato
in tempo verso la Frassa. Una corveè di sei era infatti partita il
giorno prima per recarsi ad Isère a ritirare armi: ritorneranno ben
muniti di mitragliette leggere inglesi e di alcune pistole. Bomba –
Renzo Pellini di S.Ambrogio, mio cognato – operaio della Negroni di
Cremona, si era salvato ricorrendo ad un inedito stratagemma. Al
momento dell’arrivo nemico stava provvedendo ai suoi bisogni nella
latrina della borgata. Tra le fessure delle assi a muro, aveva visto
i tedeschi ed i fascisti. Non aveva alternative. Senza pensarci un
attimo, aveva sollevato l’asse del buco e si era immerso nel pozzo
nero ricoprendosi, mentre la melma gli giungeva sino al collo ed
alla folta barba. Era l’11 gennaio del 1945, ad oltre duemila metri,
con freddo intenso e neve abbondante. Non era certamente una
posizione comoda: all’entrata di qualcuno per un bisogno piegava il
capo e stringeva i denti tra la lingua per evitare che si sentisse
il loro battito dovuto al freddo ed alla paura. Rimase in quelle
posizione alcune ore. Ne uscì quando le donne della borgata, vista
l’aria pulita, si recarono al cesso ed aiutarono il malcapitato
Bomba ad uscire, intirizzito ma vivo. Venne poi portato un mastello
da bucato pieno di acqua calda per il desiderato bagno. Si distinse
anche in questa occasione Carolina, la bergèra, che con sapone e
spazzola rese Bomba splendido e soddisfatto. La Carolina era la
bergera che portava la mandria al pascolo, e con il fischio diretto
ai cani, informava noi, che eravamo nascosti tra i sassi del
“Rognoso”, dopo l’assassinio di 26 partigiani al Col del Lys il 2
luglio 1944, della presenza o meno dei fascisti.
Merego – Amerigo Manara di S. Bassano, Cremona - il professionista
di spettacoli con fischio a bocca e la chitarra, assai conosciuto
nel rione, era il nostro bravo cuciniere. Vide da lontano l’arrivo
dei rastrellatori e si gettò in una stalla colma di foglie e altri
foraggi, zitto zitto, respirando leggero per non far filtrare suono
alcuno. Ci dirà poi un contadino, presente perché reclutato, che un
brigatista nero, mascherato con fumo nero in volto, con bava alla
bocca, si mise a sparare tra le foglie. Solo dopo parecchio tempo,
al momento giusto, Merego uscirà dal nascondiglio tremante,
impaurito, ma salvo e senza neppure un graffio. Al rientro della
courvèe, si festeggiarono i sopravvissuti e si resero gli onori ad
Eugenio, assassinato.
Mentre le speranze erano quelle di vedere un nemico scornato
ritirarsi nelle proprie fabbriche-caserme in Avigliana, fascisti e
tedeschi avevano preso posto, invece, con un distaccamento della
Monterosa, a Col S.Giovanni e Almese, ad Alpignano ed a Fiano, in
bassa valle, e continuavano, con puntate, a salire verso i nostri
distaccamenti, rientrati dallo svallamento, costringendoci quindi a
continui spostamenti. Tedeschi e brigate nere, dislocate ad
Avigliana, erano impegnati nelle varie valli dell’arco alpino: dalla
valle di Susa alla val Chisone, dalla Valle di Lanzo alla val
Sangone, nel Canavesano e nel Cuneese. Centinaia i partigiani che
morirono in questo periodo.
Della nostra formazione vennero catturati, isolatamente in valle, il
21 gennaio, Leonida, Panni (Leo) Attilio Novasconi (Barbarossa) e
Rosolino Righetti (Nando), tutti e tre cremonesi.
Il primo, Leo, aiutante magazziniere di brigata, verrà ucciso, dopo
aver fatto camminare a vuoto il nemico alla ricerca dei magazzini,
mai trovati. All’incalzare violento dell’ufficiale, gli sputò in
faccia dichiarando che lui non avrebbe mai tradito la causa per la
quale era venuto in montagna. Portava un paio di scarponi nuovi, suo
vecchio sogno. Verrà preso a calci e a colpi del calcio di fucile ed
i suoi scarponi verranno usati per spaccargli il cranio.
Il secondo – Barbarossa – commissario del distaccamento Faleschini,
venne accompagnato ad Almese, al Comando. Durante il viaggio gli
spintoni e gli insulti furono frequentissimi. Giunti fuori l’abitato
di Rubiana, uno della pattuglia gli si avvicinò e gli fece segno, in
modo bonario, di andarsene. Il Barbarossa, alla vista di un
sentiero, si buttò per fuggire in bassa valle. Non fece in tempo a
fare i primi passi, che una scarica di mitra gli tagliò a metà il
corpo.
Il terzo – Nando – catturato nei pressi di Monpelato, parecchio più
anziano e padre di due figlioletti, venne torturato ed ammazzato tra
le neve. Sarà don Lavagno a vederlo e a provvedere alla salma.
In pianura venne saccheggiata e distrutta, in San Gillio, la Cascina
del Lago, e ucciso un ragazzo tredicenne. Era la sede del
distaccamento e della squadra d’azione “Callet” comandata da Cichin.
In quei giorni, il Comandante Cichin verrà trucidato, con altri due
partigiani, in una stalla nella zona di S.Gillio: riposavano dopo
una lunga marcia.
Il nemico, venuto a conoscenza dello svallamento in pianura,
infuriato, accentuò la sua azione in tutta la zona da Pianezza,
Alpignano, Caselette. In una imboscata, sulla strada di Brioni,
vennero uccisi, sempre in gennaio, Cili, Parin di Torino e Cavour,
studente universitario di Milano. La stessa sorte toccò anche
ai fratelli Mulatero ed altri partigiani nella zona di
S.Gillio-Givoletto. Il 2 febbraio verranno fucilati in piazza, a
Carmagnola, dopo sevizie, i cremonesi Tuffo – Paolo Bozzetti, di
Piazza S. Paolo e Aldo – Aldo Codazzi di Cà del Pesce in Via
Mantova.
La nostra risposta, sia in montagna che in pianura, non si fece
attendere. Rico el Lungh darà una efficace risposta alla brigate
nere nella zona di Givoletto, a seguito anche della perdita di
Merlo, prestigioso cuciniere. A Somma Campagna, il V. Comandante di
Pianura, Luciano, con il suo gruppo, mise in soggezione i militi,
asserragliati nella casermetta-buncher.
Deo, in montagna, respinse attacchi della Monterosa, che si era
spinta oltre il Col del Lys. Qualche mese dopo la Monterosa chiederà
un incontro ai partigiani, tramite i parroci dei due paesi, Col S.
Giovanni e Monpelato. Andammo a tale incontro con i vestiti più
belli e con la barba ben rasata. Dovevamo far vedere chi erano i
partigiani! C’erano anche Luci e Don Paolo. Ci si incontrò sul ponte
di Novaretto – disarmati ovviamente – e la trattativa sottolineò la
sicurezza nella vittoria che animava entrambe le parti. Nulla di
fatto, quindi. Altri attacchi di brigate nere verranno respinti
sull’altro fronte, a Favella, provenienti da Avigliana.
Si arriverà a marzo in queste condizioni di permanente attacco a
Deo, fino al 30 marzo, quando lui e Pucci, ed altri quattro
partigiani, verranno colpiti a morte. Morte di cui abbiamo parlato
nell’articolo pubblicato dal “Welfare di Cremona”, giornale del
marzo del 2006, nella ricorrenza dell’assassinio.
Avevo lasciato le due donne – Rina e Maria - ospiti in casa
parrocchiale a Monpelato, e lì attesero il momento più opportuno per
riprendere la via del ritorno a Cremona. Il timore di incontrare
pattuglie fasciste e tedesche consigliava prudenza. Venne il giorno
buono e partirono a piedi da Monpelato a Rubiana, per prendere la
corriera per Torino, stazione Porta Nuova.
I partigiani erano in possesso, in quei momenti, di pezzi di pelle
leggera per tomaie per bambini – nera e verde – e pezzi di stoffa
velluto avanzata dalla confezione dei loro giubbotti. Erano di color
rosa, rosso, blu, granata, ed ogni distaccamento vestiva il
giubbotto del colore scelto, come fossero divise di collegio.
Io avevo consigliato a mia moglie di attorcigliare attorno al corpo,
sotto il vestito e il capotto, la pelle e il pezzo di stoffa per
farne scarpine e vestitini per i bambini a casa. Era necessario
nasconderle, perchè si trattava di merce non in commercio. Ed avevo
consigliato, ingenuamente, di mettere tra quelle pezze pure una
copia del giornale di brigata “Sentinella Garibaldina”, uscito per
Natale del 1944. Consiglio inconsulto e pericoloso.
Le due donne, infatti, salirono sulla corriera a Rubiana. Dopo
qualche fermata, sulla stessa corriera, salì anche una pattuglia
tedesca per effettuare un controllo dei passeggeri. Dai loro
documenti sarebbe risultato che erano di Cremona, ed una simile
presenza, in quei luoghi ed in quel periodo, sarebbe risultata
quantomeno strana. Si sapeva, infatti, dei cremonesi in valle,
presenti tra i partigiani. La preoccupazione per loro diventò paura.
Maria pensò, in caso di controllo, di spacciarsi per la giovane
cameriera della Signora Rina, che aveva il portamento di una signora
di rango. Ella, con freddezza, aveva preso il rosario dalla borsetta
e si era messa a pregare. La pattuglia tedesca, per pura fortuna, le
saltò nel controllo. Cosa sarebbe successo se i tedeschi avessero
trovato ciò che Maria portava con sé… Grande fu il sollievo!
Avvolta e rigida come un baccalà, mentre ( giunte a Cremona - dalla
casa di Rina Tonani, a S. Sebastiano) si stava recando in bicicletta
a casa, dagli suoceri, e dalla sua piccola Rosalba, in San Savino,
non le sembrava vero di potersi sentire, orgogliosamente, anche lei
partigiana.
On.
Enrico Fogliazza “Kiro” - 10 gennaio 2007 - 62 anni dopo.
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