STORIA DELLE DONNE PARTIGIANE: FU UNA
RESISTENZA TACIUTA
Sono molti i Partigiani che
nel corso degli anni avrebbero voluto dare maggiori riconoscimenti
alle Donne della Resistenza, ma senza trovare il modo o i supporti
per farlo (forse prigionieri di una vecchia cultura). Questo
articolo, preso a prestito da "Parma sul web", può rappresentare un
piccolo risarcimento morale per le Donne Resistenti anche della
nostra zona...
I valori ed i
caratteri del mondo femminile diedero alla guerra di liberazione
antifascista una ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti.
Eppure…
Trentacinquemila
le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le
patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne
organizzate nei Gruppi di difesa; 16 le medaglie d'oro, 17 quelle
d'argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o
cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne
arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le
deportate in Germania. Sono questi i numeri (dati dell'Associazione Nazionale
Partigiani d'Italia) della Resistenza al femminile, una realtà poco
conosciuta e studiata.
Durante la guerra le donne, non solo si erano fatte carico delle
responsabilità sociali tradizionalmente maschili, sostituendo l'uomo
nel lavoro e nel mantenimento della famiglia, ma avevano anche
scelto di schierarsi e combattere, nelle diverse forme possibili, la
lotta resistenziale, ribaltando la consueta divisione dei ruoli
maschile e femminile.
Nei libri di storia si accenna appena alla partecipazione delle
donne alla Resistenza, sebbene il loro apporto si fosse rivelato
determinante ai fini di una maggior efficacia dell'organizzazione
delle formazioni partigiane, entrando a far parte di diritto nella
storia della Liberazione nazionale: le donne si occupavano della
stampa e propaganda del pensiero d'opposizione al nazifascismo,
attaccando manifesti o facendo volantinaggio, curando collegamenti,
informazioni, trasportando e raccogliendo documenti, armi,
munizioni, esplosivi, viveri, scarpe o attivando assistenza in
ospedale, preparando documenti falsi, rifugi e sistemazioni per i
partigiani.
Risulta evidente che un aiuto di questo tipo, considerato dalle
stesse protagoniste come "naturale", trova difficoltà ad essere
formulato storicamente in modo ufficiale. Infatti i dati
numerici sopra riportati non sono completamente attendibili, poiché
la maggior parte di essi si ricava da riconoscimenti ufficiali e
"premiazioni" assegnate a guerra conclusa sulla base di criteri
militari, in cui la maggioranza non rientrava o non si riconosceva.
Di fatto veniva riconosciuto partigiano chi aveva portato le armi
per almeno tre mesi in una formazione armata regolarmente
riconosciuta dal Comando Volontari della Libertà ed aveva compiuto
almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra.
Ma l'azione
femminile, oltre alla direzione dettata dalla necessità di dare
assistenza ai partigiani, attraverso molteplici attività materiali,
si orientava anche politicamente: numerosissime donne, di ogni
estrazione sociale, operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti, in
città, così come in campagna, organizzarono veri e propri corsi di
preparazione politica e tecnica, di specializzazione per
l'assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e dei fogli del
Comitato di Liberazione Nazionale.
La seconda guerra mondiale ha permesso alle donne, in un certo
senso, di emergere dall'anonimato e le ha trasformate in soggetti
storici finalmente visibili, nell'esperienza di sostegno e
solidarietà offerta all'azione partigiana; solidarietà che ha
valicato l'ambito familiare ed è diventata valore civile di
convivenza.
L'antifascismo fu, per le donne, una scelta difficile, ma libera da
costrizioni esterne: non fu dettata dal timore di rastrellamenti
messi in atto in seguito ai bandi, o dallo stato di evasione che
fece confluire nelle bande partigiane migliaia di giovani. In più
quelle che partecipavano attivamente non erano né fanatiche, né
guerrafondaie, ma donne normali. La Resistenza, per queste donne,
non significò impugnare un moschetto, ma soprattutto significò la
conquista della cittadinanza politica.
Il desiderio di liberarsi dai tedeschi si intrecciava con quello di
conquistare la parità con l'uomo: ciò esprime il fatto che allora la
donna acquistò la consapevolezza del proprio valore e delle proprie
capacità, derivante dalla rottura del sistema di controllo sociale
causata dalla guerra. Si trattò di una guerra nella guerra, della
battaglia per la loro emancipazione dopo una millenaria
subordinazione. La motivazione politica portò ad un risultato
importantissimo: la richiesta di un riconoscimento di un ruolo
pubblico nel nuovo sistema democratico, fino ad allora negato alla
donna da una società prevalentemente maschilista.
L'attività delle partigiane è stata sottoposta in sede storica a
varie letture: Anna Bravo ha evidenziato come il contenuto
dell'appello che la società lancia alle donne nei momenti di
sconvolgimenti profondi, come le guerre, facendo leva sul sacrificio
di sé per la salvezza collettiva in nome della maternità come valore
sociale, riconduce l'azione femminile all'interno del naturale
orizzonte di valori istintuali che non può tradursi nel
riconoscimento di una pratica politica.
Anna Rossi Doria ha sottolineato il tentativo delle donne di
trovare un valore fondante nel rapporto con la politica attraverso
la valorizzazione pubblica delle capacità femminili tradizionalmente
svolte nella sfera privata.
Nella Resistenza
questo ha trovato espressione nell'attività svolta dalle donne nelle
giunte popolari e nei Cln di base. In altre parole, la scelta
resistenziale delle donne ha rappresentato, in contrapposizione ai
modelli femminili proposti dal regime fascista, la ricerca di
libertà personali sollecitata dalla società di massa e, in parte,
soddisfatta dalla difesa armata e paritaria della patria, simbolo
nella tradizione politica occidentale dell'accesso alla
cittadinanza.
La Resistenza, comunque, ha rappresentato una nuova importante tappa
del percorso emancipativo femminile, determinando per la donna un
universo simbolico di riferimento nuovo, sancito formalmente dal
decreto sull'estensione del diritto di voto del 1° febbraio 1945.
Che donne
fantastiche, queste antifasciste. Combattevano, portavano armi,
discutevano appassionatamente, facevano l'amore, sorridevano,
s'arrampicavano su montagne gelate. Le hanno chiamate donne
della "resistenza taciuta", come s'intitola uno storico
saggio su dodici vite partigiane. In effetti pochi le conoscono per
ciò che erano: autentiche leader, politiche e morali. Combattevano,
venivano arrestate, a volte picchiate o violentate dai nazifascisti,
senza parlare o tradire.
Facevano politica senza separarla dalla vita ( molto tempo prima dei
tempi in cui "il privato è pubblico"). I valori ed i caratteri del
mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione ed in
risposta a questa, diedero, anche alla nostra Resistenza, una
ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti. Fra questi
caratteri, risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, il
senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e di soffrire,
il rispetto della verità dei fatti e dei sentimenti ("avevamo
paura", hanno dichiarato alcune, candidamente), la generosità
comunicativa, la modestia, la pietà.
Davvero una Resistenza sofferta e taciuta. Sono decine di migliaia
le donne che hanno combattuto il nazifascismo affrontando arresti,
violenze e deportazioni. Che sono uscite di casa per entrare nella
Resistenza. Che vi hanno fatto ritorno, spesso dimenticate, a
guerra finita. Esse non si affiancarono ai loro compagni
soltanto con il ruolo di cura attribuito loro dalla memorialistica e
dalla storiografia ufficiale, né si può più dire che esse stavano ai
margini della lotta di liberazione, perché esse ne furono
protagoniste. L'importanza delle donne nella vita quotidiana e
sociale nel borgo aumentò durante la guerra: non solo fecero fronte
ad un aggravamento delle già misere condizioni di vita, ma si
assunsero l'incarico di manifestare con modi "estroversi", come le
proteste di piazza, il dissenso contro il regime.
Simbolo del nuovo protagonismo femminile è il famosissimo
"sciopero del pane" del 16 ottobre del 1941. La protesta scoppiò
per la riduzione della razione pro capite di pane, nonostante le
rassicurazioni dello stesso Mussolini. Le donne assaltarono un
furgoncino della Barilla, formarono un corteo numeroso ed agguerrito
che, al grido di "Pane, pane" riempì le strade cittadine ed impegnò
le autorità fasciste per tutta la giornata. I documenti ufficiali
hanno ridimensionato la partecipazione di massa a questa protesta e,
soprattutto, la sua portata politica. Con questa "chiassata" le
donne, casalinghe ed operaie, non operarono solo sul fronte delle
rivendicazioni materiali, ma espressero tutta la rabbia ed il
dissenso popolare contro il regime, la guerra e le restrizioni da
essa imposte.
Questa manifestazione di massa è, quindi, da considerare l'atto di
ingresso delle donne nel movimento antifascista e preludio del salto
di qualità del loro ruolo all'interno del movimento clandestino.
Salto di qualità dovuto anche alla graduale maturazione di una
coscienza politica che fra le donne possedeva solo chi lavorava in
fabbrica a causa delle attività sindacali e di propaganda
antifascista che lì erano svolte. Nel momento in cui
decidevano di essere contro il fascismo, esse erano obbligate non
solo a schierarsi politicamente, ma anche a rompere oggettivamente
con la separatezza della propria tradizionale domesticità per
proiettarsi sulla scena pubblica.
A quel punto non era possibile più alcuna ingenuità, alcuna mancanza
di consapevolezza. Si accorgevano di essere doppiamente diverse
rispetto al resto della società, aggiungendo al senso di solitudine,
che le avvicinava ai loro compagni di fede, la percezione vivissima
di essere isolate anche, e soprattutto, nei confronti delle altre
donne.
Dovevano negare il
modello seduttivo di tanti stereotipi al femminile e questo poteva
risultare piuttosto facile. Difficile, molto più difficile, era
spezzare i condizionamenti ed i legami familiari quando questi si
ponevano come barriere ardue da scavalcare. In questo caso la scelta
poteva assumere una dimensione totalizzante, fino ad azzerare del
tutto la propria realtà privata.
Erano pochi i casi in cui il rapporto con la famiglia assumeva toni
così radicalmente conflittuali ed anzi, nella memoria delle
militanti, la cultura familiare veniva costantemente rivissuta come
moralità, come un ambito al cui interno la scelta antifascista
appariva in un certo senso predestinata. Sempre, invece, la
frequentazione con gli ideali ed i progetti politici
dell'antifascismo produceva nella loro vita intima contraddizioni
laceranti, la sensazione di essere considerate "bestie nere" per le
quali la trasgressione del modello femminile tradizionale comportava
l'attivazione quasi automatica di meccanismi di difesa e di
autoisolamento.
Per intraprendere quel cammino bisognava essere assolutamente
convinte della propria forza interiore, assecondando quelle
scintille di diversità che facevano di ogni antifascista una donna
che si distingueva dalla altre, anche solo per una infinitesima
porzione di comportamenti, atteggiamenti, letture, abitudini
culturali, modi di vestire, di truccarsi, di vivere il rapporto con
i propri figli, con i genitori, di interpretare l'amore, di gestirsi
la propria sessualità.
Erano tutti rivoli di una "diversità" che confluivano in un tipo
ideale dell'antifascismo al femminile, che smarriva i contorni di
un'esperienza assoluta da testimoniare, di un modello etico -
politico che diventava una realtà totalizzante, per assumere la
configurazione tumultuosa ed incandescente di un universo fatto di
scelte individuali, casualità, contraddizioni personali, lasciando
affiorare una molteplicità di percorsi difficilmente riconducibili
ad una uniformità segnata dalle grandi sintesi politiche ed
ideologiche. Giovani popolane appartenenti ai ceti operai,
poco o per nulla politicizzate, residenti nei borghi popolari furono
le donne che scelsero di aderire alla Resistenza.
Chiamate dalla storia a combattere in un mondo in sfacelo,
queste donne si esposero senza esitare a tutti i rischi della guerra
partigiana. Nella massima parte non vollero imbracciare le
armi, questo simbolo di prepotere maschilista, prendendo parte a
pieno titolo alla Resistenza civile.
Indipendentemente
dai mezzi usati nella lotta, si distinsero dagli uomini per i modi e
la qualità della loro partecipazione. I valori ed i caratteri del
mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione ed in
risposta a questa, diedero, anche alla nostra Resistenza, una
ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti.
Fra questi caratteri, risaltano la spontaneità, il rifiuto del
calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e
di soffrire, il rispetto della verità dei fatti e dei sentimenti
("avevamo paura", hanno dichiarato alcune, candidamente), la
generosità comunicativa, la modestia, la pietà. Davvero una
Resistenza sofferta e taciuta. Fin dall'immediato dopoguerra,
opposizione e resistenza al nazifascismo sono state identificate con
la lotta armata, minimizzando l'opera senza armi, considerandola
come contributo alla prima, cioè come una forma laterale di azione.
Questa svalutazione della Resistenza civile penalizzò soprattutto il
riconoscimento dell'azione femminile che fu prevalentemente senza
armi e subì la stessa feroce repressione della lotta armata.
Solo il ruolo della staffetta venne celebrato riconoscendone
la pericolosità e l'importanza. L'attività di Resistenza
civile delle donne non si esauriva, però, con la figura della eroica
staffetta. Esse si resero d'aiuto in modi diversissimi, a volte
specificatamente femminili come il vestire e aiutare i militari
sbandati affinché sfuggissero alla cattura dei tedeschi ( il
cosiddetto "maternage" ) e la cura dei feriti, o attraverso la
propaganda antifascista, il sabotaggio in fabbrica della produzione
destinata alla guerra nazi -fascista, o la raccolta di viveri e
denaro, o spontanea o organizzata dal Soccorso Rosso, per le
famiglie in difficoltà dei militanti.
Tutti ricordiamo la storia di Renata Viganò “L'Agnese va a
morire”: un libro meraviglioso e toccante, in cui l'universo
della Resistenza partigiana è filtrato attraverso occhi femminili.
Agnese non è giovane, non è bella, non è istruita né particolarmente
intelligente, non ha desiderio di uscire dal suo piccolo cosmo
contadino, ma, di fronte alla cieca violenza della Storia, compie un
atto irreparabile cha la scaraventa, quasi suo malgrado, in una vita
completamente diversa. L'Agnese partigiana sa comportarsi con
coraggio e responsabilità, ma, soprattutto, riversa sui suoi
giovanissimi compagni, tutto il suo amore riservato e costante,
tanto da divenire per tutti "mamma Agnese": un modello di umanità,
forte e sommessa insieme.
Per tante donne come per l'Agnese la Resistenza fu l'occasione di
una complessiva "promozione" umana, sociale e politica. Le comuni
condizioni di pericolo, i rischi corsi insieme, quella specie di
fratellanza, che si stabilisce quando si impugnano le stesse armi,
riuscirono ad infrangere molti stereotipi ideologici e culturali.
Agnese, per i partigiani, è comunque sempre una "mamma"; il suo
bisogno di avere il consenso del capo ricorda la gratitudine con cui
accoglieva le tenerezze del marito. Quando la giovane partigiana,
che da poco aveva raggiunto la banda, chiede di regolarizzare la sua
posizione e di sposare il compagno, il trinomio classico "madre,
moglie, figlia" si ritrova intatto con la sua carica di
subalternità, anche all'interno di un mondo ricco di fermenti
innovatori come quello partigiano.
Agnese non è solo un personaggio letterario, è un simbolo di
qualcosa di più grande e di più importante che tanto meglio traspare
nel testo quanto più essa si annulla come personaggio, per virtù
come semplicità, abnegazione. Essa combatte con i partigiani
appartenenti a formazioni fortemente politicizzate, ma i suoi
moventi non sono politici. Abbracciare la causa della lotta
partigiana in tutta la sua interezza non è cosa semplice.
Agnese è un'immagine collettiva, è uno e molti, è soggetto e oggetto
del sacrificio; un personaggio assai reale sotto certi punti di
vista, ma poi disumano per la sua grandezza, la sua capacità, spinta
fino all'assoluto di annullarsi nei fatti e nelle vicende; la morte
fisica con cui si conclude il libro non è altro che l'ormai
necessaria distruzione di quanto resta di Agnese, quella spoglia
"stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve".
Il personaggio ha già annullato se stesso per seguire una lotta, una
causa; la lotta per la libertà, contro il nazifascismo. Il ruolo
della donna nella Resistenza non è mai stato studiato con
sufficiente serietà: è sempre stata considerata come conseguenza
dell'uomo della Resistenza, quando invece molte donne fecero questa
scelta radicale da sole, senza essere in qualche modo influenzate
dalla scelta dei mariti o dei figli. Anche il loro ruolo nella
famiglia cambiò molto: la donna della resistenza era lavoratrice e
autonoma.
Figlie, spose o madri in una o più di queste vesti, le donne si
trovarono unite ai "loro uomini" per combattere le loro battaglie in
nome di un'ideale di libertà e per un futuro di pace scevro da odi e
rancori. In altre parole, prevale un doppio registro per
interpretare l'azione delle donne partigiane, cioè la specificità
femminile da un lato, grazie alla quale la donna ha qualcosa in più
e di diverso da portare alla lotta ed alla politica, la parità
dall'altro, che si traduce nella rivendicazione di un'uguaglianza di
diritti nella nuova democrazia, che poi ha caratterizzato l'entrata
sulla scena pubblica delle donne nel secondo dopoguerra.
La partecipazione alle lotte partigiane spinse le donne ad essere
protagoniste, ad assumersi responsabilità storiche dirette, ad
uscire dai moduli di un dovere solo domestico, anche se il punto di
riferimento di tale uscita restava la famiglia.
Oltre a questi,
l'esperienza resistenziale, comportò anche altri elementi di novità:
l'influenza sul carattere dell'appello al coraggio fisico ed alla
resistenza psichica, l'obbligo di prendere rapidamente, magari da
sole, decisioni drammatiche, lo sviluppo di capacità di controllo e
di operatività in campi ignoti, l'ampliarsi del sentimento di
solidarietà ed il divenire prassi attiva di una conoscenza
collettiva di classe.
La lotta partigiana vide le donne nei Gap (Gruppi d'azione
partigiana), nelle Sap (Squadre d'azione partigiana) e in montagna,
nell'organizzazione di scioperi ed agitazioni esclusivamente
femminili (si pensi alle grandi manifestazioni seguite a Torino alla
morte delle sorelle Arduino) nelle carceri, sotto la tortura (e
seppero non parlare!), nella diffusione della stampa clandestina
(le messaggere erano quelle che, mimetizzandosi e mettendo a
repentaglio le loro vite, hanno superato le linee tedesche per
stabilire un contatto fra i loro compagni d'arme.
Simbolo della loro opera è una comune borsa da spesa, nella quale
nascondevano sotto pomodori e peperoni, le informazioni cifrate dei
partigiani), nelle pericolosissime missioni di collegamento. Non
solo come "mamme" dei partigiani, o vivandiere, o infermiere di
ribelli affamati o feriti (le infermiere erano distinguibili per una
piccola fascia bianca bordata di rosso sul braccio. Le loro mani si
erano arrossate del sangue dei fratelli di battaglia, che poi
avevano accolto e curato nei fienili e nelle cantine), anche se
furono pure questo, e quando tutto ciò poteva significare l'arresto,
l'incendio della casa, la fucilazione.
Le donne furono le
saldissime maglie della rete,
rischiando spesso più degli uomini perché, se catturate, il nemico
riservava loro violenze carnali, che, in genere, ai maschi non
toccavano.
Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che "il vento del
Sud" portò ai valori sociali della Resistenza in nome della
continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente
tradite: dalle forze politiche tradizionali e, in molti casi, più
dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta. In fondo anche per
molti uomini di sinistra le partigiane combattenti avevano
trasgredito la vocazione domestica. Quindi essi preferivano pensare
che le donne avessero agito più per amor loro che per autonoma
scelta politica.
E' certo, comunque, che gli uomini non erano molto disposti a
concedere alle donne riconoscimenti, cariche e poteri. Alla fine
della lotta armata la stragrande maggioranza delle donne non si fece
avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti.
Molte, vedendo come avvenivano le assegnazioni, si astennero
deliberatamente dal chiederle per non confondersi con i partigiani
del 26 aprile. Anche per questo, le statistiche che indicano la
partecipazione femminile alla Resistenza sono così poco attendibili.
Però, quando sfilavano i drappelli delle donne partigiane, esse
avanzavano orgogliose ed impavide e si poteva scorgere sul loro
volto, reso quasi duro dalla severa vita di montagna, la bellezza
animata dal sorriso della vittoria.
Quelle che sul corpo portavano le tracce della battaglia,
suscitavano emozione e silenzio tra le due ali di folla:
dall'inferno del piombo fascista erano uscite indenni e sembrava che
le loro narici odorassero ancora della polvere da sparo. Esse
sentivano, come tutti gli oppressi, che non combattevano solo contro
il fascismo, ma anche, e soprattutto, contro la disuguaglianza e
l'ingiustizia. Ogni azione gappista risultava sofferta non
solo fisicamente, ma anche psicologicamente, perché accompagnata
dalla considerazione, da un lato, della ineluttabilità di quello che
si era fatto e, nel contempo, dall'orrore che si provava per essere
stata causa della morte di esseri umani, sia pur nemici.
A ciò si aggiungeva che il dilemma di fondo che, probabilmente,
ha attanagliato tutte le donne partigiane: ossia il conflitto tra la
necessità di sopprimere vite umane da parte di chi, per natura, la
vita la crea ed il tentativo di giustificare, a sé stessa prima che
agli altri, questo gesto contro natura. Il che è un dilemma,
appunto, tutto femminile, che rappresenta probabilmente l'aspetto
più travagliato e sublime di come le donne hanno saputo motivarsi in
questo periodo drammatico ed esaltante che fu la Resistenza e, per
certi aspetti, dà alla loro partecipazione alla Lotta di Liberazione
una valenza più intimamente sofferta rispetto alla partecipazione
maschile.
Beppe Fenoglio,
ne “Il partigiano Johnny”, descrive così il suo incontro con le
partigiane: "Praticavano il libero amore, ma erano giovani donne,
nella loro esatta stagione d'amore coincidente con una stagione di
morte, amavano uomini e l'amore fu molto spesso il penultimo gesto
della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono,
fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori
sopportando quanto gli uomini".
L'esperienza
resistenziale accomunò, in nome della Liberazione della propria
Patria dagli occupanti nazifascisti, donne di varia matrice
politica, che per semplificazione d'indagine, raggrupperemo in donne
di sinistra, comprendendo militanti del Pci, del Psi, del Pri e
della sinistra cristiana, e donne cattoliche. Le basi di entrambi i
gruppi vanno a ritrovarsi nell'associazionismo, con l'Udi (Unione
donne italiane di sinistra), e la Gioventù Femminile di Azione
Cattolica e del Centro Italiano Femminile, che contribuirono alla
formazione della cultura popolare femminile, rompendo il
tradizionale circuito fra casa e chiesa, per proporre forme di
militanza, di iniziativa, costituendo di fatto uno dei grandi
fattori di socializzazione femminile.
In più, introdussero un fattore di unificazione culturale e
di costume fra le donne del Nord del Paese, che in maggior
numero avevano preso parte alla Liberazione, e quelle del Sud,
per le quali il Movimento Cattolico fu, forse, l'unica occasione di
mobilità autonoma.
Una nota
partigiana cattolica fu Tina Anselmi,
nata a Castelfranco Veneto nel 1927, insegnante, che decise da che
parte schierarsi quando, giovanissima, vide un gruppo di giovani
partigiani portati al martirio dai fascisti:
"Dopo l'8
settembre, in seguito alla firma dell'armistizio,
i tedeschi conclusero che noi avevamo tradito l'alleanza ed allora
si sviluppò con più ferocia e determinazione la loro rappresaglia.
Noi vedevamo passare per i nostri paesi i carri bestiame pieni di
giovani dei nostri paesi rastrellati, portati in prigione e poi
impiccati o fucilati nei viali. Facevo l'ultimo anno delle
superiori, eravamo una quarantina di ragazze, quando ci portarono ad
assistere all'impiccagione di un certo numero di ragazzi, c'erano
anche dei nostri amici e c'era anche il fratello della mia compagna
di banco. A parte il trauma che ciascuna di noi subì, fu subito
naturale interrogarsi sulla liceità di quello che stava accadendo.
La dottrina fascista diceva, nel primo articolo, che lo Stato è
fonte di eticità, niente è sopra lo Stato, niente è contro lo Stato,
niente è al di là dello Stato; dunque questo articolo giustificava
quello che avveniva e le rappresaglie che erano consumate".
"Naturalmente nacquero tra di noi discussioni molto violente: chi
era per la non liceità da parte dello Stato di impiccare persone
innocenti del reato per cui venivano condannate e c'erano quelli che
dicevano che lo Stato lo poteva fare questo ed era lecito che
l'avesse fatto. Da queste domande derivarono delle risposte che
andavano sostanzialmente ad affermare che anche se si era in guerra
gli ostaggi erano innocenti e non potevano essere uccisi; da ciò
venne come conseguenza il fatto che se uno Stato governa con questi
metodi, è uno Stato che non si può accettare. Ecco, io ho incontrato
la politica così.
Quando sono tornata a casa dopo avere visto le impiccagioni dei
ragazzi, sapendo che quello che avevamo visto si sarebbe chiaramente
ripetuto, la prima scelta che ho fatto è stata di dire: uno Stato
che legittima queste uccisioni non è uno Stato che si può accettare,
occorre impegnarsi per abbatterlo e per abbatterlo occorre perdere
la guerra, combattere per la pace, perché dopo la pace si possa
realizzare una società dove eccidi, uccisioni e barbarie non siano
più ammessi".
"Ricordo sempre un treno, uno dei tanti treni che passava sempre per
la stazione del mio paese con tutti i carri piombati, dentro c'erano
ragazzi che gridavano, avevano bisogno di acqua, avevano bisogno di
cibo, facevano passare per le fessure dei carri bestiame biglietti
con gli indirizzi delle loro famiglie perché li avvisassimo".
Divenne così staffetta della brigata autonoma "G.Battisti" (erano
svincolate da qualsiasi collegamento con i partiti politici ed
avevano l'obiettivo di liberare la zona occupata dove agivano) e del
Comando regionale del Corpo volontari della libertà. Nel 1944 si
iscrisse alla DC e partecipò attivamente alla vita del suo partito,
non dimenticando mai le ragioni profonde della sua scelta
antifascista. Con l'occupazione nazista dell'Europa, furono
centinaia le partigiane jugoslave, francesi ed italiane a cadere sul
campo di battaglia, armi in pugno. Oppure fucilate, come Lina
Bandiera e Ines Bedeschi. O Irma Marchiani, messa al muro vicino a
Modena, dopo l'evasione dalla prigione tedesca. E ancora: Gina
Borellini ferita in battaglia nell'aprile del '45, ed Ancilla
Marighetto, uccisa in combattimento a soli 18 anni sui monti di
Trento. Poco distante, nel veronese, nel 1944 cadde in battaglia
Rita Rosani, fondatrice, a Verona, del battaglione partigiano
"Aquila". Paola Del Din fu, invece, l'unica donna a lanciarsi con il
paracadute, nell'ambito di una missione sulle montagne di Belluno.
Concludendo questo breve studio (breve perché moltissimi sarebbero
gli episodi esemplari da ricordare) non possiamo fare a meno di
pensare che le donne partigiane seppero certamente potenziare il
coraggio maschile con il loro esempio, la loro scelta di affrontare
un nemico feroce, la loro dedizione, il loro sguardo, il loro
sorriso.
(di STEFANIA MAFFEO)
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