... I RACCONTI DI SAN GILLIO ... ieri e oggi ...      

... intervista al signor Tiozzo Girolamo, deportato; intervista ai fratelli di Sergio Castelli, partigiano ...

INTERVISTA AL SIGNOR GIROLAMO TIOZZO

DEPORTATO NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO

DOPO L’8 SETTEMBRE DEL 1943

 

     Il sig. Tiozzo, nato a Donada (RV) nel 1919  , nella seconda guerra mondiale fu mandato prima sul fronte francese, ma solo per pochi giorni, poi in Albania per circa un mese e infine in Grecia fino all’8 settembre del ’43. Era nella divisione Modena (di Genova).

     I soldati erano senza scarpe, senza armi (avevano i fucili 91 ma non certo le mitragliatrici) e senza cibo. Nessuno dei comandanti parlava, non si sapeva come andava la guerra; cambiava continuamente compagni, perché morivano in tanti.

 

Che cosa successe dopo l’8 settembre?

 

     Quando fu firmato l’armistizio, ci trovavamo a Preveza, vicino a Cefalonia, e non ne sapevamo nulla. Arrivarono i tedeschi e ci arrestarono tutti, si fecero consegnare le armi e ci portarono a piedi fino in Bulgaria (400 km): niente cibo e tante botte; molti morirono per la strada, picchiati perché non ce la facevano. In Bulgaria ci rinchiusero in un campo di concentramento condotto dai Repubblichini di Salò: era un recinto senza baracche, dormivamo fuori. Dopo 3 0 4 giorni ci caricarono su un treno merci e ci chiusero dentro; ci diedero un po’ d’acqua solo quando passammo in Jugoslavia, a Belgrado.

     Eravamo talmente tanti nel vagone che non ci si poteva muovere; facevamo i bisogni nelle gavette e poi li buttavamo fuori dal finestrotto. Poi siamo passati dalla Romania e dall’Ungheria e siamo arrivati in Germania, nel campo 11° B vicino ad Hannover, nei pressi della strada che porta a Berlino. Nel campo c’erano solo  maschi italiani e russi.

 

Era un campo di lavoro?

 

     Sì, io facevo il muratore, quindi mi impegnavano per costruire le baracche.

     Un giorno io ed un mio amico di Modena abbiamo preso per terra delle bucce di patate (avevamo fame), subito arrivarono tre tedeschi e uno mi infilzò la baionetta nel collo, poi ci portarono davanti alla nostra baracca con i fucili puntati. Dopo circa tre ore è arrivato un furgone tutto chiuso con la rete, ci hanno caricati lì sopra e ci hanno portati nel campo di punizione a 150 km di distanza: lì avvenivano le impiccagioni, lo capimmo perché all’ingresso c’era la forca.

     Per prima cosa ci fecero percorrere un corridoio lungo circa 100 metri, poi ci fecero spogliare nudi ed io per primo entrai in una stanza dove c’era un tavolo su cui mi fecero coricare a pancia in giù; mi dissero: “se gridi, aumentiamo la dose!” Mi diedero 30 nerbate: sui bordi del tavolo c’erano i buchi fatti dalle unghie di tutti quelli che erano passati di lì. Poi mi buttarono fuori mezzo morto e mi aiutarono un po’ a rivestirmi.

     Per 21 giorni lavorai nell’acqua, faceva molto freddo (era Novembre): più botte che mangiare, solo acqua e rape. Nel campo c’erano solo italiani e russi maschi e io lavoravo come muratore sia nel campo che fuori. Abbiamo costruito persino delle case popolari per le famiglie russe che i tedeschi avevano fatto prigioniere e che facevano lavorare per loro. Una ragazza russa, che faceva il manovale con me mi portava tutte le mattine tre patate arrostite.

     La domenica spesso si andava a lavorare per delle famiglie che ne facevano richiesta al campo pagando 5 marchi: e lì finalmente si mangiava!

 

 Siete sempre rimasti in quel campo?

 

     No, poi ci trasferirono in Polonia: i polacchi erano i più cattivi.

     A maggio del ’45 arrivarono i russi e ci promisero che ci avrebbero mandato a casa in 15 giorni: ed effettivamente partimmo dopo 15 giorni. Ma, durante il viaggio fummo fermati dagli Inglesi e trattenuti a lavorare  per aggiustare le strade: non ci mandavano più a casa.

     Così un giorno ho chiesto ad una tedesca dove fosse la stazione, ci sono andato, ho preso il treno insieme ad altri soldati italiani e sono scappato. 

     Dopo 3 o 4 giorni siamo arrivati a Como e lì ci hanno visitato tutti: c’erano tantissimi malati di tubercolosi, per fortuna io no.

     L’indomani ho preso il treno per Torino (era luglio) e, arrivato a Porta Susa, ho chiesto ad un poliziotto dove fosse Via Chiesa della Salute perché lì abitavano i miei. Molto gentilmente lui mi accompagnò.

     Mi ha aperto la porta mia mamma che non mi vedeva da 5 anni e le è venuto un malore, in casa c’era anche mio padre, mia sorella no perché era al lavoro e neanche due dei miei fratelli (uno del ‘12 e l’altro del ’25) che erano stati partigiani. Sono tornati entrambi.

    

 GIORNO DELLA MEMORIA: SAN GILLIO, 25 E 26 GENNAIO 2007                          

(a cura di Maria Grazia La Monica e Valeria Pettenuzzo)

 

 

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SAN GILLIO 25 APRILE

 

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il ringraziamento

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Targa ideata dagli

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...sulla morte di Margherita a San Gillio, 25 Luglio 1944...

a cura di Maria grazia

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manifesto giorno memoria

serata di lettura 2008

i ragazzi raccontano Auschwitz

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1° Luglio 2007...

leggi la cronaca

di Maria Grazia e Valeria

(il documento d'Intenti è stato

poi aggiornato con i suggerimenti dell'Assemblea)

 1° Luglio al Colle del Lys

 

DOCUMENTO D’INTENTI.

ANNO 2007

La Monica relaziona

sull'incontro ANPI zona Ovest TO a Druento

 

62° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE

26 aprile

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Progetto attività 2006/2007

il dibattito:

"Salviamo la Costituzione"


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CELEBRAZIONE DEL GIORNO DELLA MEMORIA

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"Intervista ai fratelli di Sergio Castelli, partigiano ucciso a San Gillio il 22 Luglio 1944"

 

Piero C.: Nel ’39 eravamo già in guerra con l’ Albania, poi il 10 giugno del ’40 Mussolini dichiarò guerra alla Francia, come già aveva fatto Hitler.

M. Grazia: a noi interessa sapere come la gente ha reagito alla notizia della guerra, vista la folla osannante all’annuncio della dichiarazione di guerra.

Piero C.: la gente non era contenta, a San Gillio c’erano pochi fascisti, massimo una ventina.

Noi eravamo costretti a vestirci da balilla o da piccole italiane, eravamo obbligati, andando a scuola.

All’età di quattordici anni dovevo passare avanguardista e, siccome non ho preso la tessera, sono finito dai carabinieri: eravamo nel ’42 e ho dovuto iscrivermi per forza.

M. Grazia: quali notizie arrivavano dell’andamento della guerra?

Piero C.: tutti i giorni arrivavano bollettini di guerra numerati (n°1, n°2…); la radio, e tutti i giorni i giornali, dicevano che avevano abbattuto da 30 a 50 aerei nemici (alla fine dovevano essere 50000!): io non ne ho mai visto cadere uno.

Valeria: quindi era propaganda politica…

Piero C.: la gente non era contenta perché doveva veder partire per la guerra i figli, i mariti, i fratelli, i padri. Salvo quattro volontari e i fascisti, tutti gli altri erano costretti. Se non ti iscrivevi al fascio non potevi lavorare in fabbrica, anche se qui a San Gillio erano quasi tutti muratori e quindi potevano non iscriversi. L’85-90% degli anziani non era iscritto al fascio, ma i bambini, per poter frequentare la scuola dovevano pagare 5 lire per la tessera.

Elda C.: “papà, mi devi dare le 5 lire per la tessera altrimenti non posso andare a scuola”. E lui non voleva darmeli: quanti pianti ho fatto. Ma, si capisce, lui già nel ’22 era scappato in montagna perché a San Gillio erano venuti i fascisti, uno squadrone di Alpignano, avevano bruciato la casa di Biesta, il papà di Teodolina, e davanti al tabaccaio un giorno volevano ucciderlo; lui era già invalido, aveva una gamba di legno, mutilato nella grande guerra.

Michelina C.: abitavamo di fronte, mia mamma che guardava da dietro le tendine della finestra, era spaventatissima, aveva me, appena nata, in braccio: era il Natale del 1922 e per la paura ha poi perso il latte. L’avevano messo contro il muro del tabaccaio e gli chiedevano dove voleva che gli sparassero. “sparatemi dove volete, io sono già invalido, ho una gamba di legno”. Alla fine lo lasciarono andare.

Piero C.: Già nel 1922, nel suo cortile di via Valdellatorre n. 2, venne uccisa Rosso Anna, non sappiamo né come né perché, ma la targa che la ricorda c’è ancora.

M. Grazia: lei, nel ’40 è andato in guerra?

Piero C.: io no, perchè sono nato nel ’28, ma mio fratello Sergio era reclutato negli alpini di Susa e, dopo l’8 settembre del ’43, sfasciatosi l’esercito, lui scappò attraverso le montagne e da Susa arrivò  a casa.

Michelina C.: aveva lo zaino con tutta la sua roba e si fermò presso una famiglia che gli diede un paio di pantaloni, una camicia e un pullover blu, me lo ricordo ancora. Arrivò alla grangia dei Neri e lì incontrò Chiaffredo Palma che stava andando a Messa: era domenica mattina; alla Caussà c’erano i fari dei tedeschi, Chiaffredo caricò Sergio sul tubo della bicicletta e gli diede un passaggio verso casa, nel cortile della cooperativa. Mia madre era contenta di rivederlo e lui le raccontò che Chiaffredo lo aveva portato sulla sua bicicletta per evitare la zona dei fari tedeschi.

Piero C.: i tedeschi erano già andati via prima dell’armistizio e non c’era più nemmeno il faro italiano che era posizionato alla grangia dell’oca. Tedeschi in tutto il periodo della lotta partigiana se ne videro pochi, perché stavano nelle città.

Ma andiamo con ordine: il 25 luglio cadde il fascismo e noi, eravamo trecento, quella sera lì sfasciammo tutto e bruciammo la casa del fascio e poi sfilammo per le vie del paese per finire alla trattoria dei Cacciatori a bere.

 

Valeria: la casa del fascio dov’era?

Piero C.: era di fronte al municipio. Il municipio è sempre stato lì e c’erano al pianterreno due aule della scuola elementare, per  le classi prima, seconda, terza e quarta. Io però, nel ’42 feci la quarta dove adesso c’è la scuola materna. Avevo già 14 anni e, finita la scuola, sono andato a lavorare.

M. Grazia: in una ricerca fatta precedentemente risultava che molti bambini non frequentassero con regolarità la scuola perché impegnati nei lavori dei campi.

Elda C.: no, i bambini andavano a scuola anche quelli che abitavano nelle cascine lontane, venivano a piedi con qualunque tempo.

Piero C.: le famiglie li mandavano a scuola, il lavoro dei campi lo facevano nel pomeriggio, e per questo molti faticavano a studiare perché avevano poco tempo ed erano stanchi. Analfabeti a San Gillio non ce n’erano, salvo gli handicappati che non andavano a scuola.  Mio nonno, nato nel 1869, aveva frequentato la scuola fino alla sesta classe. Eppure era contadino e poi faceva trasporti con la mula, andava fino a Torino a prendere il tabacco per il tabaccaio, lo zucchero per Balbo e scriveva tutto sul suo quadernetto.

Valeria: che negozi c’erano a quell’epoca?

Elda C.: c’era Balbo che vendeva di tutto, anche il petrolio, il tabaccaio che aveva anche lui una specie di emporio e poi c’era Biesta con il negozio di frutta e verdura (Maria, la mamma di Mirella) e infine due panettieri con due forni, uno nel cortile dietro P.za Bovetti e l’altro vicino a dove adesso c’è la ferramenta, dalla parte di via Principi di Piemonte. Questo panettiere vendeva anche commestibili ed è stato chiuso negli anni ’70.

Piero C.: Ma torniamo un po’ indietro, al 25 luglio 1943, quando cadde il fascismo. Eravamo tutti contenti: poi venne l’8 settembre e pensavamo che la guerra fosse finita. Un mese dopo avevamo già i tedeschi in casa. Hanno portato via la radio, la fisarmonica di una famiglia che era qui sfollata e le biciclette; io non ero a casa ma controllavo le loro mosse spostandomi da via Roma a via Principi sotto l’arco, a seconda di dove arrivavano.

Elda C.: quando mio fratello Sergio si unì ai partigiani, era pericoloso, soprattutto per Piero, farsi trovare a casa. Mio padre, che lavorava a Pralungo, non tornò più a casa fino alla fine della guerra e noi donne eravamo sparse qua e là; io, Pierin e mia mamma eravamo a Givoletto da dei parenti e Michelina era al Truc di Miola da una famiglia di conoscenti.

M. Grazia: quindi la casa era abbandonata…

Piero C.: sì e tutti quelli che venivano ne portavano via un pezzo, mi sembra perfino strano che non le abbiano dato fuoco. Alla fine della guerra possedevamo solo quello che avevamo addosso come anche prima. Sergio si era unito ai partigiani nel marzo del ’44, forse anche precedentemente ma io lo vidi armato in quell’epoca. Era in Val di Lanzo nella 19° Brigata ed è stato ucciso il 25 luglio dello stesso anno in un’imboscata. Il gruppo di 8-10 partigiani, tra cui due inglesi, di cui lui faceva parte, era ricercato e si trovava sopra Pralungo, e si spostava di continuo da una cascina all’altra. Quella volta erano scesi a prendere il burro da portare in montagna, qualcuno ha fatto la spia e, alla grangia dei Neri, i fascisti erano appostati sopra il masso erratico, vicino alla cascina delle monache, con i cannocchiali, e videro la polvere sollevata dalla macchina (la strada era sterrata). Calcolarono il tempo necessario ad arrivare in Via Principi e poi sono partiti con due grosse macchine, indossando tutti una camicia rossa. I nostri si sono fermati in piazza Bovetti: Mario Castagno e altri due sono scesi  per andare a prendere il burro, e Sergio e un inglese sono rimasti vicino all’auto. Da San Rocco arrivarono i fascisti mascherati da compagni, Sergio alzò il parabellum per salutare quelli che pensava fossero partigiani della Val di Susa, e lì partirono gli spari: furono uccisi in via Roma, angolo via San Pancrazio. Mario e gli altri, sentiti gli spari, scapparono dall’altra parte. L’inglese morì subito; mi hanno detto che mio fratello combattè ancora, tutto ferito com’era. Lanciò ancora le ultime due bombe a mano che aveva. Testimone del fatto fu il daziere che abitava nel cortile di Guasto. Sergio, ancora vivo, fu caricato e portato al cimitero di Venaria.

Io, tornando in bicicletta dalla Mandria, dove lavoravo, avevo sentito gli spari e mi son detto:”A San Gillio c’è di nuovo 'la repubblica'!”

Michelina C.: Qualcuno andò a dire ai miei nonni che avevano ammazzato il loro nipote Sergio, e i nonni volevano precipitarsi a recuperare il corpo, poverini! Ma lui non c’era più.

M. Grazia: e la famiglia come e quando è stata avvertita?

Piero C.: io l’ho saputo il giorno dopo, alle 10, da Maggio Bertolotti della Caussà e dal “cit” che lavorava con me alla Peppinella.

Elda C.: a mia madre è venuto a dirlo mio padre: lei è caduta stecchita.

Michelina C.: magna Tina, la sorella di mio padre, sfollata a San Gillio, di nascosto, ha preso i vestiti per vestirlo ed è andata in bicicletta a Venaria. Il becchino del cimitero l’ha aiutata a vestirlo e a sistemarlo nella cassa, poi ha scavato la fossa, che ha rivestito con dei mattoni, perché la terra non venisse a contatto con la cassa, e l’hanno seppellito.

L’anno seguente, subito dopo la Liberazione, mio padre insieme ad un amico è andato al cimitero di Venaria con un camioncino: hanno aperto la cassa, era bello, uguale, aveva solo gli occhi infossati.

Piero C.: era morto dissanguato. La cassa era sana, ma mio padre volle comprarne un’altra, lo spostarono e lo portarono a San Gillio, nella Cappella di San Rocco, e l’abbiamo vegliato fino al giorno dopo. Poi vi furono i funerali e lo seppellimmo qui a San Gillio.

Una settimana dopo siamo tornati a Venaria e abbiamo parlato col custode, che ci ha fatto vedere dove era stato seppellito: c’era ancora la targa con il suo nome.

Michelina C.:circa quindici giorni prima della sua morte la mamma lo aveva incontrato dal tabaccaio in Via Roma (lui andava anche a trovarla a Givoletto) e gli aveva detto di fare attenzione.

Sergio aveva risposto che ci volevano almeno 20 pallottole per farlo fuori…

Piero C.: e infatti ne prese 20 di pallottole, lo chiamavano il diavolo rosso.

Michelina C.: l’ultima volta che è andato a trovare la mamma a Givoletto, lei lo accompagnò per un tratto di strada verso La Cassa e lui non finiva più di guardarla e di parlare; la mamma lo sollecitò ad unirsi ai compagni che erano più avanti, perché non rimanesse solo, ma lui continuava a guardarla e a parlare. Fu l’ultima volta che lo vide.

M. Grazia:  quindi la vostra famiglia ha sempre avuto sentimenti antifascisti…

Piero C.: mio padre era socialista, ma socialista socialista, non come quelli di Craxi; poi, dopo la Liberazione diventò comunista.

Valeria: c’era il podestà a San Gillio?

Piero C.: sì, si chiamava Castagno Domenico ed era una brava persona, un podestà all’acqua di rose, che non ha mai fatto male a nessuno.

Michelina C.: noi ragazze a volte facevamo le staffette. Angelica Rossati, la sorella di Rosina Peinetti, portava sempre una giacca rossa, e una volta mi chiese di accompagnarla a Trucco di Miola a prendere delle cose: io avevo paura, ma le dissi di sì.

Andammo da una famiglia a prendere dei documenti, una pistola e un giubbotto pesante. Nel giubbotto pesante e bianco c’erano tante fotografie dei partigiani, anche quelle del funerale di Robotti a San Gillio: ci siamo anche noi che portavamo le corone. Io ho indossato il giubbotto.

Valeria: c’era anche la pistola ?

Michelina C.: no, quella l’aveva Angelica, perché io avevo paura. L’aveva legata sotto la giacca rossa che portava sempre; la sua famiglia era come la nostra, anche lei aveva un fratello partigiano, Oreste Rossati.

Quando eravamo a metà strada da Trucco a San Gillio, nella discesa di Giordanino, vedemmo arrivare dal ponte una colonna di fascisti: io dissi ad Angelica di prendere un sentiero ma lei rispose:” no, no. Andiamo avanti e salutiamo come se niente fosse”. Così abbiamo fatto, loro salutavano…erano anche tutti giovani, e noi salutavamo. Intanto la mia mamma e quella di Angelica da casa hanno visto la colonna andare verso La Cassa e avevano il batticuore, finché non videro la giacca rossa.

Elda C.: su quella strada avevano piazzato una batteria di mitragliatrici vicino al cimitero e sparavano a tutto quello che si muoveva. Tempo prima avevano ammazzato  l’asino di Pumin, che era quello che la mattina presto passava a raccogliere il latte nelle cascine; una mattina ha incontrato un gruppo di fascisti, gli stessi che avevano ucciso Robotti e quello di Rivoli alla Vinisiera, che si misero a sparargli contro: lui si buttò nel fosso e si salvò, invece l’asino morì.

Sul ponte del Casternone fu ucciso anche un farmacista che era sfollato a Givoletto e venne portato a San Sebastiano; siamo andate a vegliarlo, era così magro, con la barba, sembrava che si muovesse…

Valeria: ma perché fu ucciso?

Elda C.: non si sa…

M. Grazia: ma Angelica è la stessa di cui parla Ribotta, riferendosi ad una casa dalla quale si vedeva tutta la piana verso Pianezza ed Alpignano?

Piero C.: sì, è la stessa casa da cui io vidi  il 12 maggio del ’44, festa di San Pancrazio, arrivare una colonna di fascisti, e feci appena in tempo ad andare ad avvisare una quindicina di partigiani tra cui Oreste, che stavano giocando a bocce da Carlun: tutti scapparono, Oreste ed io andammo verso il mulino, c’era già l’autoblindo,  ci videro e cominciarono a sparare con la mitragliatrice; allora noi ci buttammo in un campo di segala alta: sentivamo che ci cercavano ma non ci trovarono. Noi ci eravamo buttati in un fossato, quindi eravamo ancora più bassi, li sentivamo parlare perché ci giravano intorno, ma non si fidavano di addentrarsi nel campo perché non sapevano se eravamo armati. Restammo lì tre ore, poi cominciò a piovere e se ne andarono.

Elda C.: quell’inverno era freddo e nevoso e noi cucivamo le divise dei partigiani, io, Wilma la sarta e Vittorina: un giorno arrivarono i repubblichini e in fretta e furia nascondemmo tutto, e meno male che non le hanno trovate. La mamma di Wilma tremava tutta.

A gennaio, per due giorni, ci furono i tedeschi in paese e ci entravano in casa; avevano piazzato una mitraglia nel cortile vicino alla cooperativa, dove abitavamo noi: una sera sono entrati con una pistola e un mitra, io avevo in braccio un cuginetto, che avevamo preso con noi perché la mamma era rimasta vedova, e aveva quattro figli: con le armi spianate ci facevano domande su domande e hanno chiesto anche  di chi era la foto appesa (quella di Sergio); io risposi che era di mio fratello che era morto in Grecia. Hanno frugato dappertutto, anche nel sottotetto, forse pensavano di trovare armi, ma non riuscirono ad entrare nella stanza da letto dove c’era mia madre, perché il chiavistello chiudeva al contrario, quindi pensando di aprire, invece chiusero. E fu di nuovo un grosso spavento per la mia mamma.

M. Grazia: generalmente le incursioni erano da parte dei repubblichini?

Piero C.: sì, i tedeschi sono venuti solo 5 o 6 volte.

Elda C.: una notte di luglio del ’44 si era sparsa la voce che i fascisti avrebbero dato fuoco al paese, e così tutti corsero a nascondersi nel fossato dietro il canile; in realtà quella notte non successe niente. Invece un’altra volta volevano dar fuoco alla casa di Rosso Anna, quella che avevano ammazzato nel ’22, e il cui nipote diventò poi un partigiano; tutte le donne che abitavano nel cortile si misero a piangere e ad implorare che non lo facessero. Allora entrarono nella casa, buttarono tutti i mobili nel cortile e gli diedero fuoco.

Piero C.:  però bruciarono la casa di Mario Castagno.

Dopo la Liberazione, finita la guerra, ai primi di giugno, abbiamo montato in piazza il ballo pubblico che era di Toselli, c’erano ancora i partigiani che andavano a caricare il vino col camion a Venaria e abbiamo festeggiato.

(a cura di: Maria Grazia La Monica e Valeria Pettenuzzo)

"Cichinot"  Francesco Lucco Castello, partigiano e fratello di Carlo, fucilato dai fascisti nel marzo del 1945, si è spento all'età di 93 anni.

Funerali

La cerimonia civile si terrà presso la sua abitazione, in Via Fermi, 3 - San Gillio, domani martedì 23 aprile alle ore 15,00

Alpignano, Assemblea ANPI, Febbraio 2008: Cichinot, come tutti i partigiani viventi, riceve un riconoscimento da chi è "venuto dopo".

Grazie ancora a te,

 ed a tutti i Partigiani recentemente 'scomparsi'

e che non abbiamo citato

22/4/2013

 

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